Un possibile apporto alla crescita del Pil
Ha ragione il prefetto Mario Morcone a proporre che i rifugiati inizino a lavorare nelle città. Un’integrazione rapida nel mercato del lavoro ha effetti benefici sia per la comunità di immigrati che per chi li accoglie: aumenta il reddito prodotto, riduce gli oneri fiscali e il rischio di criminalità.
Potrebbe apparire insensato per paesi come il nostro, visto che gran parte dei rifugiati sono o vorrebbero essere in transito verso altre destinazioni. Che senso avrebbe, ad esempio, far lavorare i rifugiati di Ventimiglia che tentano di raggiungere a nuoto gli scogli francesi? Eppure proprio per paesi come il nostro e proprio perché i rifugiati vorrebbero andarsene avrebbe senso adottare politiche attive di rapido inserimento nel mercato del lavoro.
Per capirlo bisogna rovesciare la prospettiva e riflettere sul fatto che gli immigrati sono in molti casi una risorsa. Certamente per chi richiede asilo prevalgono considerazioni umanitarie e la necessità di mettere in atto reti di protezione per i più deboli. Ma molti di loro hanno energie e competenze per lavorare. Energie di cui un paese come l’Italia, con un profilo demografico in rapido invecchiamento ed un’economia al rallentatore avrebbe davvero bisogno.
Il fatto che gli immigrati percepiscano l’Italia unicamente come una piattaforma di transito riflette una questione più ampia. I flussi di lavoratori sono un naturale processo di aggiustamento macroeconomico in un’area monetaria come quella dell’euro. Questi si spostano verso le aree più ricche e a maggior crescita. Soprattutto i lavoratori altamente qualificati. Se l’Italia e la Spagna erano le destinazioni preferite degli immigrati prima dello scoppio della grande crisi economica, questo ruolo in Europa ora ce l’ha la Germania. Paradossalmente nell’Europa a 28 gli italiani rappresentano il terzo contingente per numerosità tra gli emigrati intraeuropei dopo ungheresi e polacchi. Dunque, come è ben noto, non solo gli stranieri ma anche gli italiani vanno a lavorare oltre confine.
Che senso avrebbe, penserà qualcuno, sostituire gli italiani che se ne vanno all’estero, giovani e altamente qualificati, con i rifugiati, certo meno compatibili con il mercato del lavoro nazionale? E per di più con una disoccupazione oltre al 10%? Ha senso perché i tre gruppi di lavoratori (giovani italiani emigrati, disoccupati italiani, rifugiati) spesso non sono in concorrenza tra loro. Il paese ha bisogno di politiche attive che in senso lato aumentino il tasso di occupazione della popolazione presente sul territorio nazionale.
Così come l’Italia beneficerebbe enormemente da interventi che favoriscano la permanenza dei nostri cervelli in Italia e l’arrivo di più e nuovi cervelli dall’estero; così come sta beneficiando di riforme del mercato del lavoro come il Jobs act, che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta di lungo termine; allo stesso modo beneficerebbe di interventi che accelerino l’inserimento dei rifugiati, che sarebbero a quel punto anche meno incentivati ad andarsene altrove.
Un bel rapporto recente
GLI EFFETTI Per il Fmi l’impatto positivo dei migranti sulla crescita europea entro il 2020 sarà di un quarto di punto
LA SFIDA L’Italia ha bisogno di politiche attive che aumentino il tasso di occupazione di chi è presente sul territorio
del Fondo monetario internazionale sugli effetti economici del boom di rifugiati in Europa (https://www.imf.org/exte rnal/pubs/ft/sdn/2016/sdn1 602.pdf), stima che in presenza di politiche attive l’impatto positivo dei rifugiati sul livello del Pil nell’Europa nel suo complesso entro il 2020 sarà di un quarto di punto circa. L’effetto sarà soprattutto forte nei principali paesi di destinazione, Germania, Austria e Svezia (fino a 1,1% sul livello del Pil). Ma sarà notevolmente inferiore senza un rapido inserimento sul mercato del lavoro.
Ecco allora due buoni motivi per attivarsi per far lavorare i rifugiati: intercettarne i flussi che invece andrebbero altrove; rafforzare l’impatto positivo del loro lavoro sul Pil italiano.
Insomma, l’Italia deve continuare ad essere un paese di immigrazione ed evitare in ogni modo di tornare ad essere terra di emigrazione. Con buona pace di coloro che predicano strategicamente l’ottusità anti-migratoria e un populismo di pancia nefasto al paese.