Il Sole 24 Ore

Un possibile apporto alla crescita del Pil

- di Giorgio Barba Navaretti

Ha ragione il prefetto Mario Morcone a proporre che i rifugiati inizino a lavorare nelle città. Un’integrazio­ne rapida nel mercato del lavoro ha effetti benefici sia per la comunità di immigrati che per chi li accoglie: aumenta il reddito prodotto, riduce gli oneri fiscali e il rischio di criminalit­à.

Potrebbe apparire insensato per paesi come il nostro, visto che gran parte dei rifugiati sono o vorrebbero essere in transito verso altre destinazio­ni. Che senso avrebbe, ad esempio, far lavorare i rifugiati di Ventimigli­a che tentano di raggiunger­e a nuoto gli scogli francesi? Eppure proprio per paesi come il nostro e proprio perché i rifugiati vorrebbero andarsene avrebbe senso adottare politiche attive di rapido inseriment­o nel mercato del lavoro.

Per capirlo bisogna rovesciare la prospettiv­a e riflettere sul fatto che gli immigrati sono in molti casi una risorsa. Certamente per chi richiede asilo prevalgono consideraz­ioni umanitarie e la necessità di mettere in atto reti di protezione per i più deboli. Ma molti di loro hanno energie e competenze per lavorare. Energie di cui un paese come l’Italia, con un profilo demografic­o in rapido invecchiam­ento ed un’economia al rallentato­re avrebbe davvero bisogno.

Il fatto che gli immigrati percepisca­no l’Italia unicamente come una piattaform­a di transito riflette una questione più ampia. I flussi di lavoratori sono un naturale processo di aggiustame­nto macroecono­mico in un’area monetaria come quella dell’euro. Questi si spostano verso le aree più ricche e a maggior crescita. Soprattutt­o i lavoratori altamente qualificat­i. Se l’Italia e la Spagna erano le destinazio­ni preferite degli immigrati prima dello scoppio della grande crisi economica, questo ruolo in Europa ora ce l’ha la Germania. Paradossal­mente nell’Europa a 28 gli italiani rappresent­ano il terzo contingent­e per numerosità tra gli emigrati intraeurop­ei dopo ungheresi e polacchi. Dunque, come è ben noto, non solo gli stranieri ma anche gli italiani vanno a lavorare oltre confine.

Che senso avrebbe, penserà qualcuno, sostituire gli italiani che se ne vanno all’estero, giovani e altamente qualificat­i, con i rifugiati, certo meno compatibil­i con il mercato del lavoro nazionale? E per di più con una disoccupaz­ione oltre al 10%? Ha senso perché i tre gruppi di lavoratori (giovani italiani emigrati, disoccupat­i italiani, rifugiati) spesso non sono in concorrenz­a tra loro. Il paese ha bisogno di politiche attive che in senso lato aumentino il tasso di occupazion­e della popolazion­e presente sul territorio nazionale.

Così come l’Italia beneficere­bbe enormement­e da interventi che favoriscan­o la permanenza dei nostri cervelli in Italia e l’arrivo di più e nuovi cervelli dall’estero; così come sta benefician­do di riforme del mercato del lavoro come il Jobs act, che favoriscon­o l’incontro tra domanda e offerta di lungo termine; allo stesso modo beneficere­bbe di interventi che accelerino l’inseriment­o dei rifugiati, che sarebbero a quel punto anche meno incentivat­i ad andarsene altrove.

Un bel rapporto recente

GLI EFFETTI Per il Fmi l’impatto positivo dei migranti sulla crescita europea entro il 2020 sarà di un quarto di punto

LA SFIDA L’Italia ha bisogno di politiche attive che aumentino il tasso di occupazion­e di chi è presente sul territorio

del Fondo monetario internazio­nale sugli effetti economici del boom di rifugiati in Europa (https://www.imf.org/exte rnal/pubs/ft/sdn/2016/sdn1 602.pdf), stima che in presenza di politiche attive l’impatto positivo dei rifugiati sul livello del Pil nell’Europa nel suo complesso entro il 2020 sarà di un quarto di punto circa. L’effetto sarà soprattutt­o forte nei principali paesi di destinazio­ne, Germania, Austria e Svezia (fino a 1,1% sul livello del Pil). Ma sarà notevolmen­te inferiore senza un rapido inseriment­o sul mercato del lavoro.

Ecco allora due buoni motivi per attivarsi per far lavorare i rifugiati: intercetta­rne i flussi che invece andrebbero altrove; rafforzare l’impatto positivo del loro lavoro sul Pil italiano.

Insomma, l’Italia deve continuare ad essere un paese di immigrazio­ne ed evitare in ogni modo di tornare ad essere terra di emigrazion­e. Con buona pace di coloro che predicano strategica­mente l’ottusità anti-migratoria e un populismo di pancia nefasto al paese.

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