L’ira di Erdogan colpisce i manager
Ondata di attentati del Pkk: almeno 12 morti e quasi 300 feriti
Mentre Erdogan stringe la morsa contro i nemici interni, a un mese dal fallito colpo di Stato, la Turchia viene scossa da un’offensiva del Pkk: tra mercoledì sera e ieri mattina, i militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan, secondo le autorità di Ankara, avrebbero messo a segno quattro attentati, uccidendo almeno dodici persone e ferendone quasi 300.
L’offensiva del Pkk
La scia di attentati si è aperta mercoledì sera a Van, nell’estremo Est del Paese, dove un’autobomba è esplosa uccidendo tre persone, compreso un bambino, e ferendone altre settanta, in prossimità di una stazione di polizia. Secondo l’emittente Haberturk, 38 dei feriti sono civili, alcuni sono in gravi condizioni. Un sospetto è stato arrestato.
L’attacco più grave è avvenuto ieri mattina, quando una seconda autobomba è stata fatta esplodere davanti alla stazione di polizia di Elazig, in un’altra provincia del Sud-Est, considerata un bastione nazionalista e che fino a oggi era stata risparmiata dal conflitto. Qui il bilancio provvisorio è di tre morti e circa 220 feriti.
A Bitlis, ancora a Est, è finito nel mirino un convoglio militare, colpito dall’esplosione di un ordigno. Cinque militari sono morti, altri sei sono rimasti feriti dalla bomba e negli scontri con sospetti ribelli del Pkk dopo l’attentato. L’ultimo capitolo dell’offensiva è andato in scena ad Hakkari, dove due poliziotti sono rimasti feriti in un assalto contro una caserma.
Il Pkk aveva annunciato la ripresa delle ostilità all’inizio di agosto, per bocca del comandante Cemil Bayik, che aveva promesso attacchi «in tutte le città della Turchia» e non solo nel Sud-Est del Paese a maggioranza curda.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha puntato il dito contro l’arcinemico Fethullah Gulen, addossandogli anche la responsabilità degli attentati del Pkk: «Questi attacchi - ha assicurato - sono una vendetta» per il fallimento del golpe, che secondo Erdogan sarebbe stato orchestrato dall’imam in esilio volontario negli Stati Uniti. «Non serve essere un veggente per capire che dietro gli attacchi del Pkk c’è l’organizza- zione di Gulen», ha detto durante un meeting di Ong islamiche, criticando anche l’Occidente, che «non ci ha mai capito, non ci capisce e non ci capirà mai quando si parla di lotta contro il Pkk». Per il ministero della Difesa, «l’attacco dimostra che il Pkk è uno strumento delle potenze globali».
La vendetta di Erdogan
Non si ferma il “repulisti” lanciato dopo il tentato golpe. Ieri sono state effettuate 200 perquisizioni in sedi di società sospettate di finanziare il movimento dell’imam Gulen. Solo a Istanbul sono state 100, secondo il sito web del giornale filo-governativo turco Sabahl. Cnn Turk riferisce che sono 187 le persone ricercate nell’ambito della vasta operazione. I loro asset sarebbero stati congelati, 60 sarebbero già agli arresti. Tra questi spiccano il presidente della Tuskon (la Confindustria turca), Rizanur Meral, il presidente del gruppo Aydinli, Omer Faruk Kavurmaci, oltre a Faruk e Nejat Gulluoglu, proprietari della catena Gulluoglu Baklava.
I numeri della repressione si fanno così sempre più impressionanti: 40mila persone sono sottoposte a custodia cautelare o arresti domiciliari, 20.355 sono in carcere; 79.900 dipendenti pubblici sono stati sospesi e altri 5mila licenziati. Cifre snocciolate con orgoglio dal premier Binali Yildirim, che ieri ha ribadito la necessità di svuotare le carceri per far spazio ai golpisti: «Non si tratta di indulto, ma abbiamo bisogno di posti letto». Altri 10mila uomini andranno a infoltire i ranghi delle forze speciali.
Ankara continua a scavare il solco che ormai la divide dall’Occidente e ieri ha chiesto alla Germania di espellere gli imam che fanno parte del movimento gulenista e di mettere al bando «quelle imprese e organizzazioni che sono vicine ai gulenisti».
Secondo il sito d’informazione europeo EurActiv, che cita fonti «indipendenti», gli Usa starebbero trasferendo in Romania le testate nucleari stazionate in Turchia, a causa della crisi tra i due Paesi. Il ministero degli Esteri romeno ha però smentito.