Quella «postilla» sulle interpretazioni
L ’ipotesi di bilanci «sospetti» negli anni successivi a quelli strettamente connessi all’inchiesta su Mps non è nuova alla cronaca giudiziaria. L'attività della Procura di Siena prima, di Milano poi, e le informative del Nucleo valutario della Gdf avevano già messo in luce alcune incongruenze che andavano oltre il perimetro del 2010, ultimo bi- lancio firmato dall'allora presidente Giuseppe Mussari e dall’ex dg Antonio Vigni, oggi indagati per ostacolo alla vigilanza, aggiotaggio e falso in bilancio.
Quello che gli inquirenti definiscono infatti come buco in bilancio - pari a 1,5 miliardi tra operazione Fresh per l’acquisto di Antonveneta, la rinegoziazione dei derivati Santorini e Alexandria, più le operazioni Nota Italia e Chianti classico - è stato riportato e iscritto a bilancio anche negli anni successivi, dal 2011 al 2015, con la firma dell'ex presidente Alessandaro Profumo, succeduto a Mussari, e dall’attuale ad Fabrizio Viola.
La lente dai procuratori di Siena è stata posta soprattutto sull’operazione finanziaria Alexandria, sottoscritta con la banca giapponese Nomura, che comportò per il Monte circa 500 milioni di perdite (poi chiusa con un accordo transattivo al tribunale delle Imprese di Firenze).
Il prodotto finanziario non era stato mai svalutato durante gli anni di Profumo e Viola, considerandolo non un derivato ma di fatto un Btp da inserire nel conto patrimoniale. Il cda Profumo aveva cioè firmato i bilanci con le stesse “lacune” dei cda precedenti, ma precisando in una postilla che Alexandria poteva essere oggetto di diverse interpretazioni, forti dell’assenza di contestazioni da parte della Consob. La procura di Milano ha poi chiarito la questione lo scorso febbraio, con la chiusura delle indagini su Mps: Alexandria è un derivato e va conteggiato «a saldi chiusi», ovvero attualizzando le perdite nel conto economico. Il bilancio 2015 è stato quindi aggiornato alla luce delle considerazioni degli inquirenti, su richiesta, a questo punto, anche della Consob.
Alexandria era un derivato a forte rischio, legato ad un bond emesso da una società veicolo delle Isole Cayman, congegnato dalla Dresdner Bank. Fu chiesto così aiuto a Nomura, con cui Mps elaborò un complicato meccanismo contrattuale in base al quale Nomura, sostiene la procura di Milano, avrebbe «finto» di accollarsi le perdite della banca a fronte di un suo impegno a ricambiare il favore: il cosiddetto «mandate agreement» (per cui Mussari, Vigni e Gianluca Baldassarri sono stati condannati in primo grado a 3 anni per ostacolo alle funzioni di vigilanza).
Il Nucleo valutario e la Procura milanese hanno messo in luce gli aspetti nascosti del derivato e ricostruito gli eventi. Mps chiese a Nomura di accollarsi le perdite generate dal derivato Alexandria, pari a 220 milioni. In cambio Mps “finse” di vendere a Nomura protezione contro il rischio di fallimento della Repubblica italiana, con Btp con scadenza al 2034. Nomura in cambio offrì un prestito da 3 miliardi. Tutto questo dietro pagamento di commissioni pari a 88 milioni, pagate da Mps. Ma in realtà, dicono gli inquirenti, questo non è mai avvenuto. I Btp non esistono e neppure il prestito da 3 miliardi. L’operazione sarebbe servita a mascherare l’assenza di 308 milioni (220 milioni di perdite più 88 di commissioni) e rendere il bilancio del Monte più «virtuoso» agli occhi del mercato. Situazione che, secondo la possibile nuova tesi dei procuratori senesi, potrebbe avere dei riflessi anche nei bilanci del periodo 2011-2015.