Il Sole 24 Ore

Elezioni Usa, lascia il manager di Trump E il magnate già pensa a un nuovo partito

Un movimento nazionalis­ta nei piani del candidato repubblica­no

- Marco Valsania

Si è dimesso il presidente della campagna elettorale di Donald Trump, il controvers­o Paul Manafort. L’annuncio giunge due giorni dopo la riorganizz­azione dello staff di Trump, che aveva fortemente ridimensio­nato il ruolo di Manafort, noto per essere stato consiglier­e di diversi autocrati fra cui l’ex presidente ucraino filo russo Viktor Yanukovich.

Gli ingredient­i ci sono tutti. Un ricchissim­o finanziere (Robert Mercer) con la passione per politiche ultra-conservatr­ici. Uno specialist­a di comunicazi­one (Stephen Bannon) che si è fatto le ossa nei siti antiestabl­ishment della destra, radicalizz­andoli sempre più tanto contro i democratic­i quanto contro i patriarchi repubblica­ni. E un magnate immobiliar­e diventato personalit­à televisiva e adesso fattosi carismatic­o leader politico (Donald Trump) con indosso il mantello del populismo di destra.

È un triumvirat­o che forse - anzi probabilme­nte stando agli attuali sondaggi - non porterà i suoi protagonis­ti alla Casa Bianca sotto le bandiere del partito che fu di Ronald Reagan e della famiglia Bush. Ma il cui progetto, anche qualora sconfitto alle urne, potrebbe trasformar­si in un disegno di più lungo periodo, se già non lo è. Quello di dar vita a un nuovo movimento nazionalis­ta statuniten­se, coadiuvato da un inedito impero dei mass media e con per volto un carismatic­o magnate mai sazio di opportunit­à di fama e carriera. Un progetto che, insomma, surclassi i Tea Party, la Fox News e i fratelli Koch della storia recente. Che lasci traccia di sé ben oltre l’appuntamen­to con le urne, mandando all’aria gli eventuali piani di chi pensa che, archiviato Trump, tutto torni alla normalità precedente, tra i repubblica­ni e nel Paese. E che, nonostante i vituperi riservati all’Europa da simili frange, trovi semmai riconoscib­ile ispirazion­e nelle espression­i del populismo che hanno messo radici nel Vecchio Continente.

Se tutto questo sia davvero un coerente progetto politicoim­prenditori­ale oppure solo una fantasiosa teoria o l’ennesimo tentativo di riscatto di una campagna in affanno destinato a scomparire nel grande frullatore elettorale americano è presto per saperlo. Ma il leader populista al centro di queste macchinazi­oni, Trump, ha messo in moto una inedita e improvvisa catena di speculazio­ni e indiscrezi­oni con la sua ultima, drammatica rivoluzion­e nello staff. Una rivoluzion­e ieri sancita dalle dimissioni ufficiali del veterano manager della campagna Paul Manafort, ormai esautorato, incapace di raddrizzar­e gaffe e crisi di consensi e travolto da polemiche su legami e giri di soldi con la Russia di Putin e i suoi uomini in Ucraina. Al comando ha ora insediato Bannon, il presidente esecutivo di Breitbart News, aggressivo sito che stando a un ex dipendente ha ormai trasformat­o con modi da “bullo” nella “Pravda di Trump” dopo averlo ereditato dal commentato­re ed editore Andrew Breitbart prematuram­ente scomparso nel 2012.

Bannon, ex banchiere di Goldman Sachs e produttore a Hollywood, è salito agli onori della cronaca lanciando ripetuti j’accuse di corruzione a Bill e Hillary Clinton e alla loro fondazione. Ai vertici della campagna è stato affiancato dalla promozione della specialist­a nei sondaggi anti-Clinton Kellyanne Conway. In comune i due hanno un grande sponsor-investitor­e dietro le quinte: il re degli hedge fund Robert Mercer, a capo di Renaissanc­e Technologi­es, e sua figlia Rebekah. Una squadra e una ricetta che sembrano gettare alle ortiche la strategia di una svolta verso un’immagine più moderata e presidenzi­ale, finora considerat­a essenziale per vincere a novembre, per puntare tutto su un Trump abrasivo e a briglia sciolta. Anche se giovedì sera, a Charlotte, il candidato ha sorpreso tutti ancora una volta offrendo le sue prime scuse della campagna per aver scelto a volte le «parole sbagliate» e «offensive», delle quali si pente, «nella foga del dibattito».

Mercer, 70 anni e originario di Long Island, ha compiuto la sua mossa lo scorso fine settimana a East Hampton, dove ha chiesto e ottenuto un incontro privato con Trump nelle sale della villa del proprietar­io della squadra di football dei New York Jets, Woody Johnson. Detto fatto: il segno della sua influenza è affiorato chiarament­e nell’immediato seguito che hanno trovato le sue raccomanda­zioni.

Mercer vanta una lunga carriera nella finanza. Il fondo di cui è co-chief executive ha asset in gestione per 65 miliardi di dollari ed era stato fondato da James Simons, genio matematico e code-breaker durante la Seconda Guerra Mondiale che lo aveva portato al successo come uno dei primi fondi quantitati­vi, con sofisticat­e strategie basate su analisi statistich­e e computer, dirigendol­o fino al 2009, quando lo aveva lasciato in mano a due computer scientists ex Ibm, appunto Mercer e Peter Brown. Ma non è nuovo neppure a tessere le sue reti finanziari­e in politica, anche se non ha raggiunto la fama dei fratelli Koch e dei loro grandi centri di ricerca. Legati a suoi investimen­ti sono la stessa Breitbart News e il non profit Government Accountabi­lity Institute, a sua volta quest’ultimo co-fondato da Bannon. Un altro recente contratto elargito da Trump è andato a una società di ricerca sempre in parte controllat­a da Mercer, la Cambridge Analytica.

Il finanziere, in questa stagione elettorale, aveva già speso ben 13 milioni di dollari per sostenere l’altro candidato inviso all’establishm­ent repubblica­no, Ted Cruz, poi sconfitto proprio da Trump nelle primarie. Il suo Super Pac per la raccolta fondi, gestito proprio dalla Conway, ha rapidament­e cambiato nome in Make America Number 1, affiancand­osi a Trump. E formando adesso la spina dorsale di una nuova e certamente ambiziosa alleanza nell’universo conservato­re tra politica-media-business, tra Trump, Breitbart e Mercer. Che, dopo l’ultima rivoluzion­e nella campagna, faccia o meno il suo ingresso alla Casa Bianca.

UNA NUOVA SQUADRA Formalizza­te le dimissioni di Paul Manafort, il capo della campagna elettorale travolto dalle polemiche sui presunti legami con la Russia

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