Elezioni Usa, lascia il manager di Trump E il magnate già pensa a un nuovo partito
Un movimento nazionalista nei piani del candidato repubblicano
Si è dimesso il presidente della campagna elettorale di Donald Trump, il controverso Paul Manafort. L’annuncio giunge due giorni dopo la riorganizzazione dello staff di Trump, che aveva fortemente ridimensionato il ruolo di Manafort, noto per essere stato consigliere di diversi autocrati fra cui l’ex presidente ucraino filo russo Viktor Yanukovich.
Gli ingredienti ci sono tutti. Un ricchissimo finanziere (Robert Mercer) con la passione per politiche ultra-conservatrici. Uno specialista di comunicazione (Stephen Bannon) che si è fatto le ossa nei siti antiestablishment della destra, radicalizzandoli sempre più tanto contro i democratici quanto contro i patriarchi repubblicani. E un magnate immobiliare diventato personalità televisiva e adesso fattosi carismatico leader politico (Donald Trump) con indosso il mantello del populismo di destra.
È un triumvirato che forse - anzi probabilmente stando agli attuali sondaggi - non porterà i suoi protagonisti alla Casa Bianca sotto le bandiere del partito che fu di Ronald Reagan e della famiglia Bush. Ma il cui progetto, anche qualora sconfitto alle urne, potrebbe trasformarsi in un disegno di più lungo periodo, se già non lo è. Quello di dar vita a un nuovo movimento nazionalista statunitense, coadiuvato da un inedito impero dei mass media e con per volto un carismatico magnate mai sazio di opportunità di fama e carriera. Un progetto che, insomma, surclassi i Tea Party, la Fox News e i fratelli Koch della storia recente. Che lasci traccia di sé ben oltre l’appuntamento con le urne, mandando all’aria gli eventuali piani di chi pensa che, archiviato Trump, tutto torni alla normalità precedente, tra i repubblicani e nel Paese. E che, nonostante i vituperi riservati all’Europa da simili frange, trovi semmai riconoscibile ispirazione nelle espressioni del populismo che hanno messo radici nel Vecchio Continente.
Se tutto questo sia davvero un coerente progetto politicoimprenditoriale oppure solo una fantasiosa teoria o l’ennesimo tentativo di riscatto di una campagna in affanno destinato a scomparire nel grande frullatore elettorale americano è presto per saperlo. Ma il leader populista al centro di queste macchinazioni, Trump, ha messo in moto una inedita e improvvisa catena di speculazioni e indiscrezioni con la sua ultima, drammatica rivoluzione nello staff. Una rivoluzione ieri sancita dalle dimissioni ufficiali del veterano manager della campagna Paul Manafort, ormai esautorato, incapace di raddrizzare gaffe e crisi di consensi e travolto da polemiche su legami e giri di soldi con la Russia di Putin e i suoi uomini in Ucraina. Al comando ha ora insediato Bannon, il presidente esecutivo di Breitbart News, aggressivo sito che stando a un ex dipendente ha ormai trasformato con modi da “bullo” nella “Pravda di Trump” dopo averlo ereditato dal commentatore ed editore Andrew Breitbart prematuramente scomparso nel 2012.
Bannon, ex banchiere di Goldman Sachs e produttore a Hollywood, è salito agli onori della cronaca lanciando ripetuti j’accuse di corruzione a Bill e Hillary Clinton e alla loro fondazione. Ai vertici della campagna è stato affiancato dalla promozione della specialista nei sondaggi anti-Clinton Kellyanne Conway. In comune i due hanno un grande sponsor-investitore dietro le quinte: il re degli hedge fund Robert Mercer, a capo di Renaissance Technologies, e sua figlia Rebekah. Una squadra e una ricetta che sembrano gettare alle ortiche la strategia di una svolta verso un’immagine più moderata e presidenziale, finora considerata essenziale per vincere a novembre, per puntare tutto su un Trump abrasivo e a briglia sciolta. Anche se giovedì sera, a Charlotte, il candidato ha sorpreso tutti ancora una volta offrendo le sue prime scuse della campagna per aver scelto a volte le «parole sbagliate» e «offensive», delle quali si pente, «nella foga del dibattito».
Mercer, 70 anni e originario di Long Island, ha compiuto la sua mossa lo scorso fine settimana a East Hampton, dove ha chiesto e ottenuto un incontro privato con Trump nelle sale della villa del proprietario della squadra di football dei New York Jets, Woody Johnson. Detto fatto: il segno della sua influenza è affiorato chiaramente nell’immediato seguito che hanno trovato le sue raccomandazioni.
Mercer vanta una lunga carriera nella finanza. Il fondo di cui è co-chief executive ha asset in gestione per 65 miliardi di dollari ed era stato fondato da James Simons, genio matematico e code-breaker durante la Seconda Guerra Mondiale che lo aveva portato al successo come uno dei primi fondi quantitativi, con sofisticate strategie basate su analisi statistiche e computer, dirigendolo fino al 2009, quando lo aveva lasciato in mano a due computer scientists ex Ibm, appunto Mercer e Peter Brown. Ma non è nuovo neppure a tessere le sue reti finanziarie in politica, anche se non ha raggiunto la fama dei fratelli Koch e dei loro grandi centri di ricerca. Legati a suoi investimenti sono la stessa Breitbart News e il non profit Government Accountability Institute, a sua volta quest’ultimo co-fondato da Bannon. Un altro recente contratto elargito da Trump è andato a una società di ricerca sempre in parte controllata da Mercer, la Cambridge Analytica.
Il finanziere, in questa stagione elettorale, aveva già speso ben 13 milioni di dollari per sostenere l’altro candidato inviso all’establishment repubblicano, Ted Cruz, poi sconfitto proprio da Trump nelle primarie. Il suo Super Pac per la raccolta fondi, gestito proprio dalla Conway, ha rapidamente cambiato nome in Make America Number 1, affiancandosi a Trump. E formando adesso la spina dorsale di una nuova e certamente ambiziosa alleanza nell’universo conservatore tra politica-media-business, tra Trump, Breitbart e Mercer. Che, dopo l’ultima rivoluzione nella campagna, faccia o meno il suo ingresso alla Casa Bianca.
UNA NUOVA SQUADRA Formalizzate le dimissioni di Paul Manafort, il capo della campagna elettorale travolto dalle polemiche sui presunti legami con la Russia