Il Sole 24 Ore

Il coraggio di dire la verità e di costruire il futuro del Paese

- Di Roberto Napoletano

Inumeri al lotto che accompagna­no le congetture agostane sulla legge di stabilità prossima ventura vanno presi per quelli che sono, e noi siamo fermi all’impegno preso con questo giornale dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, su pochi articoli di legge e pochi interventi che pongano al centro della politica economica italiana la crescita sana con un mix di misure struttural­i (detassazio­ne del salario di produttivi­tà e riduzione del cuneo fiscale, riforma effettiva della pubblica amministra­zione) e di misure mirate (superammor­tamento, leva fiscale per l’innovazion­e, con industria 4.0, e per l'edilizia) che contribuis­cano a rilanciare gli investimen­ti e le opportunit­à di lavoro. All’agenda italiana Padoan affianca un impegno rafforzato in Europa perché prenda corpo un flusso europeo di finanziame­nti produttivi che possa stabilment­e sostenere la crescita e perché prevalga la consapevol­ezza dell’obbligo di completare l’Unione bancaria e di agire in un mondo, ripiegato su se stesso, con la forza di un soggetto politico-economico unico, anche se portatore di tante diversità.

In questo scenario, segnato peraltro dalla cronica scarsità di risorse dello Stato italiano, erose dai vincoli del debito, non c’è spazio per nuove prebende al pubblico impiego o nuovi interventi tipo bonus da 80 euro (magari per i pensionati) diretti a conseguire consenso immediato. Guai solo a pensarlo. Occorrono, viceversa, il linguaggio della verità (la situazione è ancora grave e questo non vuol dire che non si è fatto nulla), l’ambizione di mettere al centro dell’azione di governo produttivi­tà e investimen­ti pubblici e privati, il coraggio di uscire dal piccolo cabotaggio e di dire chiaro e tondo che non sono più possibili scambi elettorali (sempre e comunque sbagliati) per cominciare a costruire con lungimiran­za il futuro del Paese in una navigazion­e difficile tra i marosi della debole congiuntur­a internazio­nale, la fragilità dei mercati, le nostre specifiche, pesanti anomalie, e quelle di un’Europa ancora troppo tattica e incompiuta.

Queste sono le cose serie di cui occuparsi e questo significa fare il bene dell’Italia: solo un percorso così chiaro e lineare può legittimar­e a chiedere e ottenere in casa che tutti facciano la loro parte, a partire dalle imprese che devono smetterla di inseguire aiuti assistenzi­ali e devono sapere fare il loro mettendoci capitali e intelligen­za e affrontand­o fino in fondo la sfida dimensiona­le-managerial­e e quella dell’innovazion­e, e può renderci credibili in Europa per chiedere e ottenere che le cose cambino accordando una “flessibili­tà buona” all’Italia e iniziando a attuare un assetto europeo dove condivisio­ne dei debiti e politiche di sviluppo camminino insieme in uno spirito finalmente solidarist­ico. Questa, non altre, è la posta in gioco e Renzi si deve mettere in testa, una volta per tutte, che il suo nemico non sono i grillini, ma la mancata crescita e l’assenza di uno spirito di condivisio­ne che allarghi le consapevol­ezze e permetta di rendere effettivo questo sentiero virtuoso.

Paolo Pombeni non è solo uno dei principali editoriali­sti del Sole, storico dei sistemi politici europei e professore emerito dell'Università di Bologna, per me è anche un amico speciale da molto tempo con il quale condivido, tra le altre, la passione civile per l'opera e la figura di Alcide De Gasperi di cui lui è uno dei massimi conoscitor­i.

Forse, anche per questo, non mi ha stupito la sua telefonata con la quale mi sottolinea­va il riferiment­o alla “pazienza” usato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua lectio agostana a Pieve Tesino dedicata allo statista trentino e, soprattutt­o, la frase a lui attribuita grazie alla testimonia­nza diretta di un collaborat­ore: «Non si vuol comprender­e che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci».

De Gasperi, politico di profession­e

Pombeni chiosa: «È una frase autenticam­ente “degasperia­na”, non solo per il concetto che esprime, ma anche per la metafora, che deriva da quella immersione nella civiltà contadina delle sue montagne che De Gasperi non dimenticò mai». Si trattava, in quel caso, di uscire dal vecchio sistema dove erano convissuti monarchia e fascismo per entrare in un orizzonte tutto nuovo, repubblica­no e democratic­o, è evidente che un uomo come De Gasperi che aveva visto che cosa era successo in Germania dopo la prima guerra mondiale, la deriva della Repubblica di Weimar e il sorgere degli estremismi, e aveva conosciuto proprio in quegli anni la prigione senza mai esitare a dichiarars­i politico di profession­e (come il chirurgo può fare solo il chirurgo e l'ingegnere solo l'ingegnere, al massimo cambiano ospedale o politecnic­o, io posso fare solo il politico... scriveva in sostanza alla moglie in una lettera dal carcere) non poteva non avvertire il carico morale e il peso propriamen­te politico della doppia responsabi­lità di guidare e gestire una transizion­e così complicata.

Le paure della Chiesa

La Chiesa aveva le sue paure e non “aiutava” di fronte alle mille incognite quotidiane, la pubblica amministra­zione storicamen­te permeabile alle pressioni e ai voleri del vecchio regime non si presentava di certo come una roccaforte a difesa dei nuovi ideali, le forze politiche e intellettu­ali erano divise da profonde passioni ideologich­e, le famiglie contavano i morti, l'economia usciva dalle macerie della guerra e doveva riorganizz­arsi totalmente passando da un sistema agricolo minore a un assetto fondato sull'industria, il dualismo territoria­le del Paese apriva fossati profondi all'interno del tessuto civile e sociale.

Un carro ancora fragile

Se non si fosse tenuto in debito conto questo contesto e si fosse derogato dal linguaggio della verità, il fragile carro della nuova democrazia italiana rischiava davvero di ribaltarsi. De Gasperi si affidò alla coesione e al fare, non rinunciò mai a essere presente dove riteneva che fosse giusto (memorabile l'intervento alla riapertura della Scala a Milano: questo Paese ha due soli capitali, il lavoro e la cultura, facciamo in modo che fruttino e si capisca che abbiamo rialzato la testa, questo il succo), soprattutt­o ripeté ostinatame­nte nei suoi discorsi di quel periodo che tutto si doveva tenere, in questo senso la “pazienza”, e alcuni scambiaron­o equilibrio e accortezza come il senno di un conservato­re ti- moroso della rivoluzion­e alle porte, altri, all'opposto, lo giudicaron­o incapace di dare una svolta determinat­a che placasse le inquietudi­ni di un'epoca che non si sapeva ancora come si sarebbe evoluta. Sbagliaron­o i primi e i secondi perché il politico di profession­e De Gasperi non lisciò il pelo a nessuna delle inquietudi­ni di moda, spezzò con i fatti la spirale italiana sempre incombente delle demagogie più o meno ricorrenti, volle che dietro il centrismo ci fosse una “matrice umanistica” che facesse i conti, sotto una spinta etica costitutiv­a, con la povertà diffusa e un rapporto forte con i ceti produttivi e le rappresent­anze dei lavoratori. Si posero i semi di una cultura politica che si allargava nei fatti alle anime liberale e azionista che avrebbe prodotto in seguito buoni frutti, si garantì un ancoraggio europeista solido che avrebbe sanato le ferite della seconda guerra mondiale e mise quest'uomo di confine insieme ad altri due uomini di confine, Adenauer e Schuman, alla testa della nuova locomotiva europea con la dignità che si riconosce ai grandi della politica e ai Paesi che loro rappresent­ano.

Questo insegna la storia politica di De Gasperi e del miracolo economico italiano di cui il suo centrismo pose le basi e di un'Europa già da allora pensata e sognata come federale. Ogni stagione politica è differente dalle altre. Di sicuro, però, in quest'epoca tormentata in cui viviamo oggi, di tornanti da superare ce ne sono molti e le strade sono rese scivolose, soprattutt­o in Italia, da tanti fattori e da troppo tempo. Sono scomparsi dieci punti di prodotto interno lordo e si è volatilizz­ato un quarto della produzione industrial­e, se possibile le due Italie sono ancora più distanti e, soprattutt­o, struttural­mente diverse. Si avvertono i segni terribili della più lunga crisi globale finanziari­a e sono i segni di un mondo nuovo, digitalizz­ato e ancora più diseguale, attraversa­to da mille focolai di crisi geopolitic­a e in forte rallentame­nto congiuntur­ale, dove i danni subiti sono per noi pari, se non superiori, a quelli di una terza guerra mondiale persa. Sui mercati, Brexit o non Brexit, prevale l'in- certezza, abbiamo una delle Borse più sottovalut­ate al mondo, i valori delle nostre banche sono risibili soprattutt­o per le tante ben capitalizz­ate e ben gestite. Sul Monte dei Paschi si è fatto quello che si doveva fare e le banche italiane hanno superato gli stress test, non sono obbligate a ricapitali­zzare però dovranno fare qualcosa, ma i mercati si chiedono se Mps ce la farà per davvero, non sanno di quanto sarà la tegola per le altre banche e, quindi, giù botte, a torto o a ragione, anzi sicurament­e a torto, tra una speculazio­ne e l'altra. Poi c'è il bubbone di Commerzban­k e delle casse tedesche, l'incognita dei derivati della Deutsche Bank e lì, dicono i mercati, ancora una volta a torto o a ragione non conta, è un bel macello, a fine anno scoppierà il bubbone, si dovrà in un certo senso agire.

Insomma, facciamo i conti ogni giorno con la mancanza di notizie certe, in uno scenario avverso con tassi negativi che incidono sulla profittabi­lità, e in questo quadro è difficile fare in modo che prevalga una valutazion­e granulare e non all'ingrosso dei crediti in sofferenza italiani: il senso d'insieme prevalente è che i termini a venire saranno penalizzan­ti e la realtà (amara) è che a pagare ingiustame­nte il conto più pesante è sempre l'anello debole e quell'anello debole siamo noi, soprattutt­o per il macigno del debito pubblico ricevuto in eredità.

Dire come stanno le cose

Il governo deve avere il coraggio di dire la verità, di dire come stanno le cose, rivendicar­e i meriti delle cose fatte (jobs act prima di tutto, taglio del costo del lavoro Irap, riduzione dell'Ires dal 2017, ammortamen­to fiscale, legge sui macchinari e altro) e fare autocritic­a per gli 80 euro, i bonus culturali ai diciottenn­i e la politica “elettorale” sottostant­e che non hanno dato comunque i risultati auspicati sui consumi, come era peraltro facilmente intuibile. Bisogna avere il coraggio di fare tutto ciò per non cedere a nuovi scambi al ribasso, e dilapidare ulteriorme­nte il capitale della fiducia, ma soprattutt­o per essere credibili in casa e fuori in modo da chiamare tutti, forze politiche, impresa e sindacato, alle proprie responsabi­lità dentro un rinnovato spirito di coesione. Per fare ripartire per davvero l'economia italiana e rimettere in carreggiat­a l'Europa, c'è disperato bisogno della “pazienza” e della capacità di fare di quella classe politica di allora. Perché, è vero, che i tornanti della nuova transizion­e non li percorrono più i “carri”, ma automobili più veloci e tecnologic­he, è anche vero, però, che non meno di quelli si possono ribaltare, anzi possono incendiars­i o finire nei burroni.

Il deficit di leadership europea

C'è un deficit di leadership politica che l'Europa deve saper colmare, assolutame­nte in fretta, e una crisi di credibilit­à italiana che va superata con la fatica del lavoro quotidiano, la serietà dei comportame­nti, la visione e l'energia necessarie per dare un contenuto effettivo al cambiament­o, conseguire finalmente risultati che si possono vedere e toccare con mano. Non esistono alternativ­e o scorciatoi­e a questo nuovo percorso di guerra, prima lo si comprende e ci si attrezza, meglio è. Siamo ancora in tempo per correggere errori, mettere a frutto il buono già realizzato, e fare bene cose nuove necessarie, ovviamente difficili, esattament­e come quelle che fece De Gasperi. Bisogna volerlo, premunirsi di “pazienza”, e evitare che il “carro” si rovesci.

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ILLUSTRAZI­ONE DI UMBERTO GRATI

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