Agguato al Barbarossa
Riassunto delle puntate precedenti. Continua la caccia al corsaro Sinan. Nella speranza di ricevere informazioni utili, Leone Strozzi rintraccia la flotta corsara di Khayr al- D n Barbarossa, che al momento è alle prese con lo storico assedio di Civitavecchia. A spingere lo Strozzi è il desiderio di vendetta e forse l’amore. Sulla sua nave riposa l’Appiani, il signore dell’arcipelago toscano in fin di vita.
Jacopo V Appiani si destò con un ululato di agonia. Non era solo la spalla ferita a provocargli dolore, bensì il veleno che gli scorreva nel sangue. Si guardò intorno, riconoscendo al barlume di una lanterna la cabina di una nave. La Lionne, rammentò. Poi udì i boati di cannoni. Non abbastanza vicini da allarmarlo ma fin troppo per incuriosirlo. Si alzò con impaccio e provò ad aprire la porta, ma la trovò chiusa a chiave. «Aprite!», gridò, picchiano i pugni sul battente. «Ditemi cosa accade!».
Non trascorse molto dacché il rumore del chiavaccio lo indusse ad arretrare. Quindi, accompagnata da un cigolio, entrò la figura di un pingue religioso intento a reggere una caraffa.
«Mi stavo giusto chiedendo», esordì padre Maurand, «se vi foste svegliato».
Il principe di Piombino lo trapassò con un’occhiata torva. «Voi chi sareste?»
«Il vostro custode», gli rispose serafico, indicando la pistola che teneva infilata nella cintura della tonaca. «Su ordine di Leone Strozzi». «E dov’è il vostro padrone?» «Non è il mio padrone», ridacchiò il reli- gioso. «In ogni caso si trova in mare, a sfidare la sorte e i diavoli turchi». Mentre gli porgeva la caraffa d’acqua, diresse un’occhiata verso una finestrella che offriva la vista della rocca di Civitavecchia.
A poche leghe di distanza, non lungi da una scialuppa attraccata alla riva, un pugno di uomini si dirigeva a nuoto verso l’assembramento di navi che cingeva d’assedio la costa. Li guidava Leone Strozzi, vestito con le sole brache e un armacollo di cuoio a cui erano assicurate spada e daghetta. Il suo corpo scivolava lucido sulla superficie del mare, sotto la tempesta dei cannoneggiamenti. Giunto nei pressi della flotta ottomana, s’inabissò per nascondersi alla vista dei nemici. I cinque coraggiosi al suo seguito fecero altrettanto.
Sono un pazzo, si disse mentre nuotava sott’acqua. Uscito di senno per una donna, divorato dalla brama di vendetta al punto da procedere incurante sotto un centinaio di colubrine. Ciò nondimeno proseguì, superando le carene delle navi turche finché non scorse quella della mastodontica galea governata dal Barbarossa in persona. Riemerse nelle vicinanze e, aggrappandosi alle cuciture dello scafo, si guardò intorno nell’attesa dei suoi uomini. Quindi sguainò la daghetta, se la mise tra i denti e iniziò ad arrampicarsi.
Ritto sul ponte della mostruosa ammiraglia, Khayr al-D n Barbarossa provava un immenso godimento dinanzi al procedere dell’assedio. Protetta dal dispiegamento delle fuste, la grande maona a tre alberi aveva raggiunto la spiaggia, la prua riversa a riva come una balena spiaggiata, ed era intenta a vomitare orde di giannizzeri dai bianchi turbanti, armati di scimitarre, balestre e archibugi. Sotto il frastuono di mille colubrine, spingarde e falconetti. A ogni squarcio che si apriva fra le mura di Civitavecchia, il corsaro fremeva all’idea di piegare la città che cent’anni prima aveva resistito all’armata del papa.
Appagato dallo spettacolo, accarezzò la barba scarlatta che gli pendeva sul petto, ritenendo fosse giunto il momento d’inviare una richiesta di resa al magistrato locale, tal Francesco Nobili. Per quanto il suo animo feroce sperasse in un rifiuto.
Si diresse a poppa verso il suo alloggio ed entrò senza far caso a pelli di animali, arazzi e trofei d’ogni sorta che adornavano l’ambiente. Si avvicinò a una scrivania occupata dal materiale da scrittura, ma prima che potesse intingere la penna nel calamaio sentì il gelo della morte sfiorargli la pelle sotto il mento. «Chi...», ebbe il tempo di mormorare.