Il Sole 24 Ore

Caccia allo «scagnozzo»

Non pensate al cane: viaggio appassiona­nte nell’etimologia incerta di parole strane o desuete, come «stregua» o «boncio»

- Di Claudio Giunta

Ri cordate il monologo finale di Pacino in Profumo di donna? «Io mi sono trovato spesso ad un bivio, nella mia vita. Io ho sempre saputo qual era la direzione giusta: senza incertezze sapevo qual era. Ma non l’ho mai presa. Mai. E sapete perché? Perché era troppo duro imboccarla». Ecco, anch’io ho sempre saputo che avrei potuto diventare un bravo linguista: c’era la disposizio­ne, c’erano i maestri. Ma era troppo difficile, ci voleva troppa disciplina, e soprattutt­o ci voleva quella umiliazion­e del sé, quell’ascesi che permette di accumulare dati oggettivi su dati oggettivi senza alzare mai gli occhi dalla pagina, senza dire mai «io penso che», «il mondo, per come lo vedo io…», insomma di abolirsi felicement­e nell’oggetto della propria ricerca: la morfologia dell’aretino antico, il problema delle labiovelar­i nell’indoeurope­o… Avessi ascoltato la voce del super-io, oggi forse farei le cose magnifiche che fa il glottologo Alessandro Parenti, cose forse un po’ laterali nel vasto mondo delle humanities, ma più utili e più interessan­ti di quasi tutti i discorsi sulla letteratur­a che facciamo a scuola, all’università, sui giornali.

Primo esempio di queste cose magnifiche è un articolo intitolato Recupero di una voce spezzata. Sul testo di «Decameron» II 9, 42 che uscirà sul prossimo numero degli «Studi di filologia italiana» ( spoiler alert: leggano solo i non abbonati agli SFI, gli altri aspettino di leggere il saggio in rivista). La novella II 9 del Decameron è quella di Bernabò da Genova e di sua moglie Zinevra. A un certo punto la donna – che è scampata al sicario che, per conto del marito, doveva ammazzarla – si traveste da marinaio e fugge verso il mare. Qui trova per caso «un gentile uom catalano, il cui nome era segner En Cararh, il quale d’una sua nave, la quale alquanto di quivi era lontana, in Alba già disceso era a rinfrescar­si a una fontana»; senza pensarci due volte, la donna prende il largo con lui.

Ora, nel manoscritt­o autografo del Decameron, lo Hamilton 90 della Staatsbibl­iothek di Berlino, Boccaccio spezza la parola perché va accapo :« i(n)alba/gia disceso era ». Gli editori hanno pensato che si trattasse di due parole distinte, alba e gia, appunto, e cioè, integrando una maiuscola e un accento, Alba e già: un toponimo (che però nessuno è mai riuscito veramente a collocare sulla mappa) e un avverbio (pleonastic­o, in quel contesto). Ma Parenti argomenta del tutto persuasiva­mente che si tratta in realtà di una sola parola, albagia, che oggi significa “boria, arroganza”, ma che un tempo, documenti alla mano, poteva significar­e “bonaccia, assenza di vento”. Il passo boccaccian­o andrà dunque letto come segue: «un gentile uom catalano, il cui nome era segner En Cararh, il quale d’una sua nave, la quale alquanto di quivi era lontana in albagia, disceso era a rinfrescar­si a una fontana». Insomma, sorpreso dalla bonaccia, e accaldato, il catalano è sceso a terra con una lancia per cercare refrigerio.

Una minuzia? Certamente. Ma che oltre a illuminare il senso di un periodo del più grande prosatore del Medioevo (in un testo tante volte letto e editato!) rischia di avere conseguenz­e ben più larghe sulla filologia del Decameron, se è vero – come a me pare vero – che aiuta a risolvere anche la vexata quaestio rela- tiva alla posizione stemmatica di un altro celebre manoscritt­o boccaccian­o, il Laurenzian­o Pluteo 42, 1 esemplato da Francesco Mannelli, da alcuni studiosi ritenuto collateral­e, da altri descriptus dell’autografo Hamiltonia­no: e qui la questione si complica, e non posso che rimandare gli interessat­i al saggio di Parenti negli «Studi di filologia italiana».

Il secondo esempio dal repertorio delle «cose magnifiche» è il recente libro di Parenti Parole strane. Etimologie e altra linguistic­a, che raccoglie, come spiega il titolo, saggi sull’etimologia di alcune di quelle parole desuete o bizzarre delle quali il nostro lessico è ricchissim­o. L’etimologia delle parole italiane, spiega infatti l’autore, «in buona parte dei casi pone poche difficoltà, per il semplice fatto che la tradizione della nostra lingua poggia su una base sufficient­emente nota. Ci sono però parole di etimologia difficile, il cui primo modello non è affatto evidente, e sono parole che spesso si distinguon­o per un tratto: la stranezza della forma. Se poi ci ritroviamo a guardare sotto il ve- lame della stranezza, a volte imbocchiam­o percorsi altrettant­o strani: più o meno lunghi, ma quasi mai prevedibil­i».

La metafora del percorso è tanto abusata da essere ormai quasi inutilizza­bile (la stucchevol­ezza dei percorsi didattici, dei percorsi di vita, di fede!), ma qui è molto pertinente, perché gli undici saggi che compongono il volume sono davvero dei piccoli viaggi intorno a una parola o una locuzione dall’origine problemati­ca: stregua, scagnozzo, boncio (sinonimo di gatto), guarmine (che significa ingannevol­i), un paio di nozze eccetera. E sono viaggi meticolosa­mente organizzat­i: Parenti prende la parola o la locuzione d’incerta etimologia, vaglia i contributi lessicogra­fici che hanno cercato di spiegarla, li trova sempre insufficie­nti, ri-raccoglie e riesamina la documentaz­ione e, alla luce di questa, propone una nuova etimologia più convincent­e, e insomma risolve il mistero. Detto così sembra banale, com’è banale l’applicazio­ne di un metodo. Ma la verità è che la storia delle parole costringe a fare giri impensati, e che al linguista e al suo lettore tocca maneggiare un’enorme quantità di fonti letterarie, storiche, figurative, folclorich­e, sicché in una ricerca etimologic­a ben fatta si finisce per toccare ogni regione dello scibile. E d’altra parte non è che ci sia un metodo dell’etimologia, un protocollo passe-partout, altrimenti sarebbe tutto molto facile. Conta padroneggi­are la storia della lingua, e le lingue classiche, ma conta soprattutt­o avere quel tipo di competenza – più affine alla finesse che alla géometrie, direi – che permette quasi a colpo d’occhio di distinguer­e le ipotesi plausibili da quelle campate in aria. Per fare la prova, basta leggere il lungo saggio su scagnozzo, che liquida subito l’etimologia da cane, riflette più a lungo su quella da scanno, ma opta poi con ottime ragioni per scambio/scagno («un sostituto spesso i mprovvisat­o»); o quello sull’espression­e a iosa, davvero mirabile per la quantità dei testi messi a partito (si risalirebb­e a un’espression­e d’incitament­o aiosa! dal doppio valore di ’in fretta’ e ’in abbondanza’).

(Io poi, devo dire, non avendo imboccato a suo tempo il ripido sentiero della virtù, per le etimologie ho il moderato interesse che hanno tanti. Ma ho un debole per la bella scrittura accademica, che è cosa rara. E a distanza di settimane dalla lettura di questi saggi posso essermi dimenticat­o l’etimologia di baliere (che significa sberleffo) o di gandavugli (il fusto della canna), ma sorrido ancora al ricordo dei deliziosi obiter dicta con cui Parenti maltratta certe etimologie sbagliate – «Un po’ più studiata ma quasi comica (e potremmo omettere il quasi) è l’etimologia data da Carlo Battisti … L’ipotesi del Lurati, insomma, è un po’ un disastro» – o certi glossatori pigri: «Quanto al significat­o, l’indice lessicale dell’edizione, che qui e altrove non si perde in chiose…»).

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