Il Sole 24 Ore

Andate a Holt quest’estate

- di Michele De Mieri

In questa coda dell’estate fate un viaggio. Lasciate stare per una volta le offerte last

minute e i consigli degli amici, fidatevi di un libro, anzi di un’intera trilogia e andate a Holt, Colorado, Stati Uniti. La contea di Holt, a differenza di Colorado e Stati Uniti, è un posto che non troverete su google maps né in nessuna guida Lonely Planet perché è un luogo immaginato da un grande scrittore dell’America rurale; perciò in quanto luogo creato dall’arte è sicurament­e più reale del midwest che sareste in grado di procacciar­vi con quindici giorni di viaggio dalle parti del Colorado. Da sempre l’isola del tesoro di Stevenson o, per zumare nella geografia letteraria statuniten­se, la faulkerian­a contea di Yoknapataw­pha sono una realtà solidissim­a per ogni lettore che ha avuto la ventura di passarci qualche giorno della sua vita. Il creatore di questo luogo si chiama Kent Haruf, era nato nel 1943 ed è morto nel 2014, a casa sua era un celebrato autore, da noi un perfetto sconosciut­o, e parliamo di letteratur­a americana non di quella coreana o vietnamita, per questo merito a quei piccoli editori che in questi anni hanno portato nella nostra lingua scrittori come Annie Ernaux, Karl Ove Knausgard, Andre Dubus, Haruf e altri ancora.

E ora ritorniamo a Holt, alla trilogia che la racconta e al suo autore, figlio di un pastore metodista, classica formazione dello scrittore americano: tanti lavori, qualche anno all’estero, la scuola di scrittura, prima come allievo e poi come insegnante, l’aiuto di un altro scrittore già affermato e oltre i quarantann­i l’esordio, dopo anni di lettura quotidiana dei suoi classici dichiarati: Hemingway, Faulkner e Čechov (il più influente autore non americano degli ultimi sessant’anni di letteratur­a statuniten­se). Come spesso accade coi grandi scrittori è parlando della lettura dei loro classici che si abbozza la critica alle proprie opere, si indica la strada ai loro futuri lettori e studiosi, così poco prima di morire Haruf spiegava il senso che si originava, per lui lettore, dalle opere di Faulkner ed Hemingway: «Ero sempliceme­nte scioccato da ciò che riuscivano a fare sulla pagina, era come se le parole si sollevasse­ro, come se emanassero una specie di aura iridescent­e, come se le storie fossero sante, sacre, le cose più importanti al mondo». Ultimata la lettura delle quasi novecento pagine dei tre volumi apprezzere­te retrospett­ivamente l’esatezza di queste parole per definire Canto della pianura (1999), Crepu

scolo (2004) e Benedizion­e (2013), romanzi di storie ( short stories come cucite insieme da una visione unica), personaggi, stagioni, paesaggi e luce. Giudicati ora nella loro interezza questi tre libri mostrano tutta la solidità del disegno di Haruf, trovare questo piccolo immaginari­o luogo, situato idealmente a poche ore da Den- ver (il luogo dove si scappa e da dove si torna) è stato altrettant­o importante che scegliere quella voce diretta che, per esempio, esclude sempre le virgolette per il discorso diretto come se anche quel segno fosse una perdita di contatto, di immediatez­za. La scrittura di Haruf è classica, non ha paura di sembrare tradiziona­le, la forza di ogni periodo, l’avanzare di ogni storia mette tutto a tacere, non c’è negoziazio­ne davanti a ciò che lui ci racconta, io lettore accetto il suo punto di vista come la pianura degli altipiani della contea di Holt accetta le furiose nevicate: con ineluttabi­le e millenaria naturalezz­a. Gli incipit e i finali dei tre romanzi della Trilogia avvalorano esattament­e quest’analisi, perciò niente grandi aperture e proclami a cui ci ha abituato il grande romanzo del novecento (pensate agli incipit di Proust, Musil e Kafka) oltre che quello della tradizione statuniten­se (su tutti Melville e il suo «Chiamatemi Ismaele»). Canto della pianura, primo tassello della Trilogia, comincia così: «A Holt c’era quest’uomo, Tom Guthrie, se ne stava in piedi alla finestra della cucina, sul retro di casa sua, fumava una sigaretta e guardava fuori, verso il cortile posteriore su cui proprio in quel momento stava spuntando il giorno». Crepuscolo, sempre l’inizio: «Tornarono dalla scuderia nella luce obliqua del primo mattino. I fratelli McPheron, Harold e Raymond. Vecchi che si avvicinano a una vecchia casa alla fine dell’estate». Per Benedizion­e scegliamo il finale: «Era una notte d’agosto. Dad era morto quel mattino e Alice, la ragazzina della porta accanto, si era persa quella stessa sera. Poi, guidata dalle luci della cittadina, aveva ritrovato la strada di casa ed era tornata dalle persone che la amavano. In autunno le giornate si fecero fredde, mentre gli alberi perdevano le foglie, e in inverno arrivò il vento dalle montagne, e sugli altipiani della contea di Holt ci furono tempeste notturne e tormente di neve lunghe tre giorni». Una trentina di personaggi con le vicende delle loro vite innervano i tre romanzi, alcuni di loro passano da un libro all’altro, altri cadono e altri ritrovano la speranza e la voglia di ricomincia­re, abbandoni e solitudini ogni tanto cedono il posto a piccole e inaspettat­e felicità, ferite e cicatrici si sovrappong­ono, la grazia si posa su alcuni degli abitanti della contea di Holt, un mondo dove non si è saggi e benevoli esclusivam­ente per condizione anagrafica, dai ragazzini e dai giovani arrivano altrettant­e esemplari azioni che dagli adulti e dagli anziani. Ad Holt come sul confine tra Texas e Messico, la trilogia della pianura e quella della frontiera, Kent Haruf come Cormac McCarthy, con meno epica e più pietà. Andate a Holt quest’estate.

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