Il Sole 24 Ore

Tutta la vita onda su onda

Con «Giorni selvaggi», autobiogra­fia intellettu­ale di un cultore del surf, Finnegan ha vinto il Pulitzer 2016. In questo suo testo narra il corpo a corpo con la violenza del mare e un amore ambiguo

- Di William Finnegan

L’unico negozio di tavole da surf di San Francisco era Wise Surfboards, uno spazio luminoso con i soffitti alti situato tra un ristorante messicano e un asilo cristiano, ai margini di un sonnacchio­so sobborgo operaio sulla riva dell’oceano che si chiamava Sunset District. Bob Wise, il proprietar­io del negozio, stava parlando con un gruppetto di surfisti locali quando ci entrai un pomeriggio d’inverno. «Così Doc, che dalla finestra di casa sua vede le onde, mi telefona e dice, “Dài, su, usciamo”», raccontava Wise. «Io insisto e chiedo, “Ma come sono?” E lui, “Interessan­ti”. Allora prendo e vado, usciamo e sono assolutame­nte mostruose. “Cosa ti aspettavi?” mi dice Doc. Viene fuori che quando per lui le onde sono interessan­ti vuol dire che sono addirittur­a peggio che mostruose».

Wise stava parlando di Mark Renneker, un surfista che abitava a Sunset, dove faceva il medico. E parlavano di lui anche due ragazzi giovani che sentii qualche giorno dopo in un’area panoramica molto ventosa sul lato sud del Golden Gate. Stavamo guardando le onde che rompevano contro la base della lunga scogliera nera sotto di noi – lo spot si chiama Dead Man e la marea era ancora troppo alta per uscire – quando uno dei due aveva indicato a gran voce un punto verso nord. Al di là del Gate, in una magnifica distesa d’acqua che dal Pacifico scorre nella Baia di San Francisco, alcune onde gigantesch­e andavano a frangersi in una zona a rischio per la navigazion­e che si chiama Potato Patch. Anche se erano distanti parecchie miglia da dove ci trovavamo, strapazzat­e dal vento e spaventosa­mente anarchiche, proprio in virtù della loro imponenza, avevano la tridimensi­onalità delle onde viste da vicino. «Ehi, prestami il binocolo», disse uno dei due ragazzi al suo amico. «Facile che ci sia Doc laggiù».

In realtà Mark quel pomeriggio stava lavorando in una clinica in centro a San Francisco, ma quei ragazzi sulla scogliera erano bene informati: Mark aveva provato a surfare sulla secca di Potato Patch – un’idea talmente assurda e terrifican­te che quelli che conoscevan­o la zona, ma non avevano parlato con i testimoni oculari, si rifiutavan­o di crederci. Siccome sapevo che non erano surfisti di San Francisco, dove i locali non erano che qualche decina, le loro osservazio­ni stavano a dimostrare che la fama di Mark aveva ormai travalicat­o i confini della città.

La mattina dello stesso giorno ero stato in un altro punto di osservazio­ne – su un terrapieno sabbioso a Ocean Beach nel Sunset District – e avevo visto Mark fare sfoggio di quelle qualità che gli avevano conquistat­o uno status particolar­e tra gli altri surfisti. Le onde erano grosse, irregolari, implacabil­i, e non erano visibili vie d’accesso per raggiunger­le dalla riva. Uscire sembrava impossibil­e e in ogni caso con onde così non valeva neanche la pena tentare, ma Mark era fuori, un’esile figurina con tanto di muta nera alle prese con la furia di un mondo d’acqua che si buttava tra le spesse pareti di schiuma impetuosa. Tutte le volte che sembrava riuscire ad avanzare, un nuovo set di onde più grande del precedente appariva all’orizzonte e andava a rompere ancora più in là (i set più imponenti si frangevano a circa duecento metri dalla riva), respingend­olo indietro in quella che i surfisti chiamano zona di impatto.

Insieme a me a guardarlo c’era Tim Bodkin, un idrogeolog­o, surfista e vicino di casa dello stesso Mark. Bodkin si divertiva come un matto davanti alle traversie di Mark. «Lascia perdere, Doc!» continuava a urlare nel vento, e poi si metteva a ridere. «Non ce la farà mai! È che non vuole darsi per vinto!» In alcuni momenti lo perdevamo di vista completame­nte. Succe- deva di rado che le onde gli dessero la possibilit­à di issarsi con tutte le sue forze sulla tavola e remare, perlopiù era sott’acqua, si tuffava sotto le onde, nuotando verso il largo da qualche parte lungo il fondo, trascinand­osi dietro la tavola attaccata alla caviglia con il leash. Dopo mezz’ora cominciai a preoccupar­mi. L’acqua era gelida, le onde potenti. Bodkin, eccitato dalla Schadenfre­ude, non condividev­a il mio sconcerto. Alla fine, dopo quasi tre quarti d’ora, ci fu un breve momento di tregua tra le onde. Mark si arrampicò goffamente sulla tavola e cominciò a remare, le braccia come le pale di un mulino nell’uragano, e in tre minuti era fuori e si agitava energicame­nte sulle sommità del set successivo con cinque metri di vantaggio. Una volta al sicuro al di là delle onde, si sedette sulla tavola per riposarsi, un puntino nero che sobbalzava sull’azzurro del mare sferzato dal vento. Disgustato, Bodkin, mi lasciò solo sul terrapieno.

Capivo bene la reazione di Bodkin. La gioia di Mark davanti alla sfide del surf aveva spesso lasciato sgomento anche me.

Qualche tempo prima in quell’inverno eravamo usciti insieme in un giorno di onde grosse a Ocean Beach. Remammo verso il largo con estrema facilità – le condizioni erano perfette, i canali facili da individuar­e – ma, sottovalut­ando le dimensioni delle onde, ci posizionam­mo troppo vicino a riva. Prima di prendere le nostre prime onde, un set enorme ci intrappolò. La prima onda mi spezzò il leash legato alla caviglia, una solida striscia di poliuretan­o lunga tre metri in grado di tirare su una macchina in salita, come fosse un nastrino. Mi infilai nuotando sotto di lei e continuai a spingermi verso il mare aperto. La seconda era un condominio di tre piani. Come la prima, stava per infrangers­i qualche metro davanti a me. Mi immersi e nuotai verso il fondo con tutta la forza che avevo. La parte superiore dell’onda, abbattendo­si sulla superficie sopra di me, esplose con il fragore di un fulmine, mentre nell’acqua si propagavan­o le onde d’urto. Riuscii a tenermi al di sotto della turbolenza, ma quando tornai a galla vidi che con la terza onda del set eravamo passati a un altro ordine di grandezza. Era gigantesca e più massiccia delle altre, e risucchiav­a l’acqua dal fondale con una furia mai vista. Mi sembrava di avere le braccia di gomma e andai in iperventil­azione. Mi immersi senza aspettare e mi spinsi in profondità. Più nuotavo verso il basso, più l’acqua diventava fredda e scura. Quando l’onda ruppe, il frastuono arrivò soffocato in modo quasi sovrannatu­rale, un basso profondo di violenza assoluta, e l’impeto che mi trascinò indietro e verso l’alto somigliava a un incubo in cui la forza di gravità era stata invertita. Ancora una volta riuscii a scamparla e, quando finalmente tornai in superficie, ero lontano, al largo. Non c’erano più onde, il che era una fortuna perché ero sicuro che un’altra mi avrebbe finito. Anche Mark era lì, sulla mia destra, a forse dieci metri da me. Come me, si era immerso facendo un duck dive ed era sfuggito all’inimmagina­bile per il rotto della cuffia. Il suo leash aveva resistito, però, e stava tirando a sé la tavola. Mentre lo faceva, si girò

scelto da:

Alberto Casiraghy,

Quando. Novantanov­e aforismi quieti e inquieti, Book, Ferrara, 2016 verso di me con uno sguardo da folle e urlò: «Grandioso!». Poteva andare anche peggio. Avrebbe potuto urlare, «Interessan­ti!».

Qualche settimana dopo seppi che, secondo le valutazion­i della sua raccolta dati, le onde di quel pomeriggio per Mark erano state davvero interessan­ti. Era rimasto in acqua per quattro ore (io avevo nuotato a lungo prima di arrivare a riva, avevo recuperato la mia tavola ed ero andato a casa a mettermi a letto), e aveva calcolato che il cosiddetto periodo – il tempo necessario perché due onde di una serie (i surfisti lo chiamano ’set’) oltrepassi­no lo stesso punto – era di venticinqu­e secondi. Era l’intervallo più lungo che avesse mai registrato a Ocean Beach. Mark ha tutta l’autorità per poter fare affermazio­ni così astruse – non avevo mai sentito nessun surfista parlare di intervallo tra le onde, tanto meno del fatto che si misurasse – perché dal 1969 tiene una specie di diario dove annota in modo dettagliat­o ogni sua uscita in surf. Registra dove ha surfato, la dimensione delle onde, l’orientamen­to della mareggiata, una descrizion­e delle condizioni meteo, che tavola usa, chi sono (se ci sono) i suoi compagni, qualsiasi evento o osservazio­ne degni di rilievo, e tutti i dati utili per procedere a un confronto anno per anno. Così la pagina del 22 dicembre 1985 riportava tra le altre cose che il mio leash si era spezzato nel ventunesim­o giorno di quella stagione surfistica in cui Mark aveva cavalcato onde alte da due metri e mezzo in su, e che era il nono giorno in cui aveva surfato onde alte tre metri e più.

Il suo giornale di bordo rivelava inoltre che dal 1969 il periodo più lungo che aveva passato senza fare surf era stato di tre settimane. Era successo nel 1971 durante un breve soggiorno in un college in Arizona. Da allora per un paio di volte era stato obbligato a restare lontano dall’acqua per un tempo di quasi due settimane in seguito a ferite riportate proprio a Ocean Beach. Altrimenti, di rado aveva passato più di qualche giorno senza fare surf e spesso era uscito in acqua quotidiana­mente per settimane e settimane di fila. Jessica Dunne, la pittrice con cui Mark vive dai tempi dell’università, sostiene che quando non fa surf per qualche giorno diventa strano. «È irascibile, e sembra rinsecchir­si dentro ai vestiti», dice. «E quando sente che le onde cominciano a riprendere, si emoziona talmente da non riuscire a dormire. Si vedono distintame­nte i muscoli sul petto e sulle spalle che gli si gonfiano mentre sta seduto sul divano ad ascoltare le onde che crescono durante la notte». In un’attività che esige una dedizione totale – ci vogliono anni per riuscire a padroneggi­are i rudimenti del surf, e una pratica costante per mantenere anche solo le competenze di base – Mark è il fanatico dei fanatici. Il suo fanatismo lo porta in territori letteralme­nte non mappati, come appunto Potato Patch. «C’è una cosa da dire di Doc», mi dice Bob Wise che fa surf a San Francisco da quasi trent’anni. «Mantiene viva l’idea che tutto è possibile».

Quella che Mark ha tenuto viva con me per anni invece è l’eventualit­à che potessi alzarmi prima dell’alba in una mattina d’inverno, infilarmi una muta umida e fredda, e buttarmi nella gelida violenza di Ocean Beach in un giorno di mare grosso. Imparai a temere le

 ??  ?? MARKA
MARKA
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy