Nel l a val i g i a d i Ob a m a
William Finnegan, qui in una foto in Sudafrica nel 1980, è nato nel 1952 a New York ed è cresciuto tra la periferia di Los Angeles e le Hawaii. Dopo la laurea alla University of California e un master in scrittura creativa, ha inseguito la sua passione per il surf facendo lavori diversi in giro per il mondo. Dal 1987 scrive per il « New Yorker » , « Granta » , « Harper's » , « The New York Review of Books » . Ha pubblicato molti reportage in Africa e in America Centrale, soprattutto su politica estera, guerre, razzismo, povertà, crimine organizzato, globalizzazione. È autore di 5 libri e con il memoir « Giorni selvaggi » ( 66thand2nd, pagg. 500, € 25) ha vinto il Pulitzer 2016. La settimana scorsa la Casa Bianca ha fatto sapere che « Giorni selvaggi » faceva parte delle letture estive del presidente Usa Barack Obama sue chiamate di prima mattina. Sogni popolati di grigi molossi e da una morbosa paura di annegare culminavano con lo squillo del telefono nel buio.
Penso che per la maggioranza dei surfisti – per me sicuramente – le onde mantengano una doppiezza inquietante. Quando sei concentrato a surfarle, sembrano vive, ognuna con una sua personalità precisa e complessa e repentini cambi d’umore ai quali bisogna reagire nel più intuitivo, quasi intimo dei modi – fin troppi sono i surfisti che hanno paragonato il surf a un amplesso d’amore, eppure le onde non sono vive, non sono esseri senzienti, e l’amante che ti protendi ad abbracciare può rivelarsi un assassino senza alcun preavviso. Per qualche motivo questa loro doppiezza non sembra tormentare Mark. Tra la sua vita conscia e quella inconscia c’è una strana coerenza. I suoi sogni sul surf, così come li racconta lui, sembrano tutti svolgersi in luoghi riconoscibili e in giorni altrettanto riconoscibili. Lui registra le maree e le mareggiate anche in sogno come se li registrasse sul suo diario. Se si sveglia in preda all’agitazione è perché voleva a tutti costi cavalcare un’altra delle sue onde oniriche. La sua voce, dall’altro capo del filo, anche all’alba era sempre argentina, chiassosa, già tutta nel mondo diurno: «Beh? Come sono?».
Dal suo appartamento Mark riesce a vedere l’estremità sud di Ocean Beach. Dal mio, negli anni in cui vivevo a San Francisco, potevo vedere quella nord. Inciampando e tremando mi avvicinavo alla finestra e da lì, con un binocolo congelato, senza riuscire a mettere bene a fuoco le immagini, scrutavo il mare freddo e agitato. «Sono… bestiali». «Beh? Allora andiamo!» Anche altri surfisti si beccavano questi richiami delle sirene. Edwin Salem, ex protegé di Mark, racconta che restava sveglio a letto per metà della notte, angosciato dall’idea che suonasse il telefono e poi, quando squillava davvero, andava nel panico: «Doc mi telefonava solo quando c’erano delle onde spropositate e sapeva che nessuno sarebbe andato con lui. In genere ci andavo».
Tutti quelli che fanno surf pongono un limite massimo alla dimensione delle onde in cui arrischiarsi. I surfisti di una determinata area col tempo imparano a conoscere i limiti l’uno dell’altro. A San Francisco, questa conoscenza reciproca dà forma a una piccola comunità compatta, nervosa e dalla parlata strascicata, che si ritrova nei parcheggi sulla spiaggia nei giorni d’inverno in cui le onde sono potenti – i surfisti vanno avanti e indietro, i pugni in tasca, la bocca secca a forza di discutere della questione, ridendo troppo forte mentre in mare, al largo, si sollevano e collas- sano onde spaventose. Studiamo con attenzione le onde, i canali di accesso, cercando di decidere se il moto delle onde è a un livello che concepibilmente riusciamo ad affrontare. Si tratta di un livello che è psichico e fisico al tempo stesso, ed è imprescindibile dal gruppo: se X esce, ciò non implica obbligatoriamente che debba uscire anche io, ma se esce Y, lo seguirò perché tutto ciò che è al suo livello è, ed io lo so, anche al mio.
Quando abitavo a San Francisco, l’unico surfista di un livello prossimo a quello di Mark era Bill Bergerson, un falegname del posto che tutti chiamavano Peewee – un soprannome improbabile che gli era rimasto appiccicato dai tempi in cui era il fratello minore di qualcuno. Peewee è un surfista tranquillo, sensibile, dotato di una calma eccezionale, forse il miglior surfista puro che San Francisco abbia mai prodotto. La sua passione per il big wave surfing però non è esente da discriminazioni. Non tenta di surfare ogni giorno in cui capita che le onde siano giganti; surfa solo quando le condizioni sono ragionevolmente buone. Mark invece esce in situazioni che rasentano la follia, quando nessun altro prenderebbe minimamente in considerazione la cosa. Allora rema al largo in pieno delirio. E se ne torna ridendo. La cosa peggiore è che non ha alcun riguardo per i demoni degli altri: per quello di Edwin, dei suoi pazienti, per quello di Wise. E per il mio.
Uno dei miei demoni personali era proprio il surf. Era cominciata come una passione da ragazzino, ma da allora si era trasformata in qualcos’altro. Quando nel 1983, a trent’anni, mi ero trasferito a San Francisco facevo surf ormai da quasi vent’anni. C’erano stati lunghi momenti in cui ne ero stato lontano – mentre vivevo in Europa, o in Montana, o a New York – ma poi avevo sempre fatto in modo di ritornarci. Nel complesso, avevo investito una quantità impressionante di tempo ed energia a dare la caccia e a cavalcare le onde. All’inizio degli anni Ottanta, quando una rivista di surf (ne esistono varie) pubblicò una lista dei dieci migliori spot del mondo secondo i loro redattori, mi resi conto che in nove avevo surfato e che, cosa ancora più importante, l’onda migliore che avevo surfato nella mia vita su quella lista non c’era perché solo pochissimi sapevano della sua esistenza. Scoprire quell’onda, al largo di un’isola disabitata delle Figi, era stato l’apice di un lungo viaggio che mi aveva tenuto lontano dagli Stati Uniti per quasi quattro anni. La ricerca di nuove onde mi aveva portato in luoghi strani e meravigliosi, sprofondandomi in una o due occasioni così addentro nella vita dei villaggi tropicali di pescatori che, atterrato dalla malaria, quasi quasi ci rimanevo per sempre. Ma organizzarsi la vita lì era una cosa ben strana. Quando arrivai a San Francisco, ormai da qualche anno però ero riuscito a confinare il surf ai margini della mia vita.
Mark si mise di impegno per farmi invertire la rotta. Quando aveva sentito dire che avevo intenzione di trasferirmi a San Francisco, mi aveva scritto a New York e mi aveva mandato una sua foto su una bella onda spazzata dal vento a Ocean Beach, onda che peraltro definiva semplicemente «niente di speciale». Quando arrivai sembrava convinto che sarei stato pronto a surfare in ogni momento. Sapeva che avevo un’altra vita, ma non voleva sentire ragioni. La mia ambivalenza nei confronti di quello che io chiamavo uno sport lo faceva diventare matto. Gli sembrava un’eresia: il surf non era uno “sport”. Era “una via”. E più cose ci riversavi dentro, più ne ricevevi in cambio – lui stesso ne era la dimostrazione eclatante. Sapevo di non essere l’unico oggetto delle sue sollecitazioni a non prendere il surf più seriamente e, pur nella continuità della mia ambivalenza, l’entusiasmo di Mark produsse i suoi effetti. Riuscì a farmi surfare più di quanto avrei fatto di mio, e inoltre si conquistò la mia attenzione. Io e il surf eravamo, se così si può dire, sposati da quasi tutta la vita, ma il nostro era uno di quei matrimoni in cui c’è poco dialogo. Non parlavo quasi mai di surf, non ne scrivevo e neanche ci pensavo molto. Il surf contribuiva ben poco all’immagine che avevo di me stesso. Lo facevo e basta – con meno costanza ora di prima, ma altrettanto automaticamente. Mark voleva aiutare me e il surf a ricomporre il nostro ostinato e silenzioso matrimonio. Io non ero convinto di volerlo ricomporre. Preservare un certo margine di incoscienza vicino al centro della mia vita mi andava bene, per certi versi. Nonostante tutto però, nel corso del mio primo inverno a Ocean Beach, mi ritrovai a riempire pagine e pagine dei miei taccuini di storie legate al surf, osservazioni sull’oceano – e descrizioni del dottor Renneker.
(traduzione di Fiorenza Conte)