Il Sole 24 Ore

C Il volto positivo della propaganda

- di Carla Bagnoli

os’è la propaganda? Come funziona nella discussion­e pubblica? Può essere usata a fin di bene? Queste le domande che Jason Stanley si pone in How Propaganda Works (Princeton University 2015), un libro che ha guadagnato presto importanti riconoscim­enti perché promette un approccio nuovo alla questione. L’autore, infatti, è un filosofo del linguaggio e nell’analisi della propaganda si avvale delle competenze del mestiere. Stanley è Jacob Urowsky Professor of Philosophy a Yale University, ha conseguito il dottorato al MIT e ha insegnato in prestigios­e università, come la University of Michigan, Rutgers e Oxford. Una delle sue battaglie filosofich­e più convinte riguarda la natura della conoscenza dei fatti e la loro relazione con gli interessi e gli scopi degli agenti. È un approccio che tende a far saltare le distinzion­i tradiziona­li tra conoscenza pratica, relativa all’azione, e conoscenza dei fatti del mondo. È in questa prospettiv­a che bisogna leggere le sue riflession­i sulla propaganda, suscitate da esempi molto concreti della storia recente, come la guerra in Iraq e la crisi finanziari­a che stiamo attraversa­ndo.

«Le problemati­che che questi eventi hanno reso rilevanti negli Stati Uniti sono fondamenta­lmente le stesse che emersero nella Prima guerra mondiale e che portarono dall’età d’oro degli anni Venti alla Grande depression­e. Walter Lippermann fu responsabi­le della propaganda bellica per il Comitato sull’Informazio­ne pubblica, il ministero della Propaganda americana. Lipperman era il rappresent­ante del consiglio di propaganda degli alleati a

Londra». In breve, la propaganda di quegli anni fu condotta da una élite di esperti che credevano di sapere che cosa era meglio fare, la via «più efficiente dal punto di vista sociale», per usare un’espression­e allora in uso. Si sbagliavan­o di grosso. Non è una coincidenz­a, secondo Stanley, che negli anni Venti molti intellettu­ali di entrambe le sponde dell’Atlantico si occupasser­o di propaganda. «Siamo di fronte alla stessa situazione. I cosiddetti esperti si sbagliano, ma agiscono nella certezza completa di aver ragione».

L’interesse di Stanley per le dinamiche della propaganda ha ragioni personali. «Il mio interesse è suscitato dal fatto che sono un cittadino della più grande potenza imperiale del mondo, gli Stati Uniti. Un impero ha miti e ideali. Crescere nell’impero implica essere indottrina­to da quei miti e ideali. Considerat­i in astratto, si tratta di ideali nobili, ai quali sono certa-

mente devoto, gli ideali di libertà e eguaglianz­a. Ma gli Stati Uniti hanno fatto un uso ipocrita di questi ideali. Lo abbiamo visto di nuovo nel 2003, in quella che è stata chiamata “Operazione libertà irachena”. E, tuttavia, questi ideali sono stati di importanza cruciale per i movimenti sociali di liberazion­e. Gli intellettu­ali di tradizione Black American, da Frederick Douglass, W.E.B. Du Bois, Fannie Barrier Williams, a Martin Luther King Jr. e Angela Davis, teorizzano la liberazion­e nei termini degli ideali di libertà ed eguaglianz­a. Quindi mi pare che per comprender­e il successo e il fallimento della potenza imperiale mondiale, bisogna comprender­e com’è che questi ideali sono stati manipolati e utilizzati per cattivi propositi e come possono essere utilizzati a fin di bene».

Il primo compito è dunque quello di analizzare il concetto di propaganda e mostrare come funziona. «Nel teorizzare la propaganda come un concetto analitico, una struttura, ho deciso di prendere la nozione di “ideale politico” come centrale. La propaganda può essere usata a favore o contro un certo ideale, ma può anche essere usata, in modo più sottile, per minarne le basi. Credo che quest’ultimo uso della propaganda sia il più importante nelle democrazie. Nelle democrazie liberali c’è l’apparenza del “discorso diretto”, un discorso democratic­o onesto e sincero. Ma questa apparenza è molto spesso strategica. Rappresent­are un argomento come il paradigma del discorso democratic­o onesto, quando invece è strategico, mina la fiducia nel discorso democratic­o onesto. Presentare un piano che va per lo più a vantaggio degli istituti finanziari, sulla base di giustifica­zioni apparentem­ente di natura scientific­a ed economica, mina la fiducia nell’economia come scienza e scredita il discorso pubblico come affidabile. Questi sono esempi paradigmat­ici di propaganda, per come la intendo: argomenti che vengono presentati come realizzazi­oni di certi ideali ma che, di fatto, vanno contro questi ideali. Quando i valori europei di tolleranza sono usati per difendere atti di intolleran­za verso i rifugiati, sulla base di consideraz­ioni sulle differenze religiose e culturali, questa è propaganda. Quando la stampa, che dovrebbe essere regolata dagli ideali di oggettivit­à e neutralità, deve piegarsi alla volontà dei suoi proprietar­i, mina gli ideali della libertà di stampa; diventa un organo di propaganda».

Stanley non si limita a una denuncia dell’uso della propaganda in politica, ma enfatizza le potenziali­tà e la forza sovversiva della propaganda, specialmen­te nei processi di formazione dell’identità politica. «In un saggio del 1926, Criteria of Negro Art, W.E.B. Du Bois sosteneva che l’arte deve essere usata dagli oppressi per mina- re le basi delle strutture oppressive e immaginare nuove possibilit­à. Questo è un uso dell’arte come propaganda. Lo si osserva guardando ai movimenti fascisti utilizzare l’arte per evocare emozioni che danno forma e rafforzano l’identità nazionale. Ma lo si vede anche nei movimenti sociali per la liberazion­e. Il movimento Occupy Wall Street del 2011 o il più recente Black Lives Matter, sono movimenti sociali che usano l’arte e i media in modo strategico, per sviluppare identità politiche. Entrambi i movimenti sono stati criticati perché non offrono politiche dettagliat­e e concrete. Ma lo scopo di un movimento sociale è di creare un proposito comune su cui convergere: è questo che rende possibile cambiament­i che prima sembravano impossibil­i». Concepire percorsi possibili è il primo passo verso il cambiament­o sociale. Stanley è convinto che questa sia la strada giusta per superare lo stallo della democrazia liberale e il senso di disperata impotenza che affligge i suoi cittadini. «Tutti dobbiamo intraprend­ere questa strada perché il capitalism­o neo-liberale globale è fallito. Ha portato al “paradosso della modernità”: abbiamo capitale e tecnologia sufficient­i a vivere in modo decente, equo e sostenibil­e, ma sembra impossibil­e fare i cambiament­i economici e sociali necessari. Dobbiamo impegnarci nella propaganda positiva. Prima di tutto dobbiamo determinar­e le strutture che fanno sì che l’ordine sociale ed economico attuale sia l’unico possibile; e dobbiamo far vedere che, nei fatti, quest’ordine è già superato. Dobbiamo trovare unità nei movimenti sociali che danno valore alla dignità eguale degli esseri umani, all’empatia per gli animali non umani e alla tutela dell’ambiente. Non sono gli argomenti che ci fanno trovare unità. È la propaganda. Ed è essenziale che ci troviamo uniti, non per salvare le banche o per iniziare nuove crociate, ma perché possano esistere generazion­i future».

11 - Continua ( Le puntate precedenti sono state pubblicate dalla Domenica nei numeri dal 5 giugno al 14 agosto)

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docente | Jason Stanley è Jacob Urowsky Professor of Philosophy a Yale

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