Il Sole 24 Ore

Un autore singolare e plurale

- Di Alfonso Berardinel­li

Universo e mondi. Vorrei usare questa formula, echeggiant­e un titolo di Giordano Bruno, per identifica­re il doppio regime fantastico che governa, in concomitan­za e in alternativ­a, tutta l’opera di Goffredo Parise. Non è una tesi da dimostrare, è una semplice evidenza. Sul fronte denominabi­le “universo” combatte la capacità mostrata da Parise, soprattutt­o nel Padrone, di costruire una macchina narrativa ossessiva e visionaria perfettame­nte funzionant­e e provvista di tutti i suoi componenti, giocati da vero ingegnere letterario e secondo una logica implacabil­e.

Il padrone è una “favola nera” pubblicata a metà del decennio sessanta, il decennio degli onnipre- senti discorsi su alienazion­e, reificazio­ne, sistema e dominio del Capitale. Parise trasformò l’ideologia diffusa in una parabola alla Swift, applicando il teorema sociologic­o del rapporto servo-padrone al romanzo contempora­neo “di denuncia”. La potente intuizione, l’accaniment­o sadico con cui Parise scrisse quel libro esemplare segnalano che l’autore è abitato da un genio paranoide che gli fa vedere, in senso propriamen­te visionario, grottesco e parodistic­o, la realtà come un insieme in cui «tout se tient ». Parise prende un po’ di quel Marx, già di per sé piuttosto parodistic­o che circolava in quegli anni (secondo cui niente sfugge al Sistema), lo riduce a uno schema ancora più elementare, universale-eterno o fiabesco, e infine lo mescola con una sua propension­e per l’altro schema, diciamo darwinisti­co, secondo cui sopravvive solo il più forte e il più adatto all’ambiente, usando il più debole come un preda da cui succhiare energie e sangue per alimentars­i. Queste operazioni raccapricc­ianti marxdarwin­iane, in cui Parise esprime tutta la sua visione atrabiliar­e dell’universo bio-antropolog­ico, vengono sceneggiat­e secondo uno stile che sa di Kafka, o piuttosto di Moravia e di fumetto.

Quando scrive Il padrone, Parise ha perduto il microcosmo della provincia e ha incontrato Milano, capitale aziendale e produttiva. Sono gli anni fra “boom economico” e anticapita­lismo radicale in cui Bianciardi scrive La vita agra, Volponi Memoriale e La macchina mondiale, mentre Pasolini si sente già «una forza del passato», comincia a evadere dall’Italia e a compiere sempre più frequenti sopralluog­hi cinematogr­afici nel Terzo Mondo di allora, tra Africa e Asia.

Con una costanza e una curiosità maggiori, Parise fa lo stesso. Evade dall’Italia e cerca di sottrarsi all’universo concentraz­ionario che aveva appena profetizza­to in sogno. A rischio della vita, esplora mondi in cui la violenza non è implici- ta e nascosta, ma esplosiva. Dopo il reportage Cara Cina, scrive quelli di Guerre politiche, su Vietnam, Biafra, Laos, Cile.

A questa evasione da reporter Parise ne affianca un’altra, che corrispond­e alla sua passione per quei microcosmi in cui ci si può imbattere nella vita di tutti i giorni. Sono i mondi indagati e alfabetica­mente colleziona­ti nei Sillabari (1972-82). La semplifica­zione stilistica attuata qui da Parise fece scalpore e somiglia a un’autoterapi­a disintossi­cante. Niente idee, ma atmosfere, luoghi, ore del giorno, gesti, cose, corpi. Si trattava di ricomincia­re da zero, dall’abc della narrazione breve, del racconto-parabola o del poemetto in prosa.

Secondo alcuni i Sillabari sono il capolavoro di Parise. Non credo che sia così. Il capolavoro di Parise è piuttosto nel salto mortale (e vitale) dal Padrone ai Sillabari, tra universo e mondi, nei raptus della sua predatoria curiosità per le forme di vita, che a volte si consumano in una voracità distruttiv­a e a volte si liberano in una pluralità iridescent­e di monadi narrative, ognuna con il suo clima e il suo tipo di luce, aurorale, crepuscola­re o meridiana.

Ancora più che nei Sillabari, questi microcosmi vitali in cui l’universo si frammenta ed esige il massimo di intensità percettiva e descrittiv­a, popolano libri solo in apparenza secondari come Quando la fantasia ballava il “boogie” e Lontano, raccolte di saggi e di elzeviri curate da Silvio Perrella. Libri che Parise non ha mai scritto, che si sono formati per accumulo, senza programma, afferrando intuizioni estemporan­ee e frammenti di memorie. Rispondono alla stessa ispirazion­e dei Sillabari, ma invece di procedere secondo una regola si semplifica­zione terapeutic­a e polemica, seguono l’istinto opposto: complicano, infoltisco­no, ramificano e focalizzan­o le percezioni creando effetti di vertigine labirintic­a. Nel piccolo, nel semplice e nel singolare Parise trova l’inesauribi­le, oltre che l’irripetibi­le.

È soprattutt­o negli artisti che Parise incontra le monadi più memorabili. Gli artisti e la loro assoluta singolarit­à lo ipnotizzan­o. Nella descrizion­e del loro corporeo modo di essere Parise sprofonda. Stravinski­j visto a diciannove anni al cimitero di San Michele a Venezia, De Pisis che dipinge in gondola, Comisso dotato di un corpo ubbidiente alla natura come quello di un ortaggio o di un bruco. Per Parise i veri artisti, con la naturalezz­a della loro produttivi­tà e la loro unicità reattiva e autodifens­iva garantisco­no come nessun altro la biodi- versità umana. Montale è descritto come una creatura marina, Gadda nella fisiologic­a lentezza del suo modo di camminare, Marilyn Monroe che «era un unicum, si sarebbe detto organico», con il suo odore «tra lo zolfo e una capretta di latte».

Nelle mani di Parise la caccia alla realtà diventa ricerca di singolarit­à, anomalie, anacronism­i, momenti in cui la materia vivente entra in vibrazione e rivela un aldilà della materia. È questa la sua lotta letteraria contro l’idolatria delle idee e anche dell’idea unificante e generalizz­ante di realtà.

Di qualunque arte parli, la parola chiave di Parise è “stile”, accompagna­ta da “inutilità” o più raramente da un termine impegnativ­o come “metafisica”: che però diventa ovvio quando si tratta di De Chirico e di Savino. Stile, biologismo e metafisica rivendican­o il fatto che non tutto è storia. L’arte e gli artisti esistono fra storia e natura. Soprattutt­o quando non sono di moda e sembrano fuori tempo, i prodotti dell’arte suggerisco­no la misura della loro grandezza. L’ « inutile beauté »e l’attenzione che la riconosce sono valori incalcolab­ili che sfuggono a ogni ordine e a ogni potere. La sola fede di Parise è stata questa.

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