Il Sole 24 Ore

Un volt o intagliato nel legno

- di Elisabetta Rasy

Aveva un viso che era difficile scordare, io l’ho conosciuto quando la sua salute non era più buona, ma l a fisionomia era quella, la stessa che si vede nelle fotografie di lui giovane ai tempi di Il ragazzo morto e le comete. A quell’epoca – l’inizio dei Cinquanta - Goffredo Parise assomiglia­va ai personaggi erranti e lunatici del suo romanzo d’esordio, e quella sua faccia così affilata faceva pensare al personaggi­o di Baptiste, il mimo interpreta­to da JeanLouis Barrault nell’indimentic­abile film di Marcel Carné del 1945, Les enfants du Paradis, che in Italia uscì col più convenzion­ale titolo di Amanti Perduti. Poi gli anni avevano ispessito la sua figura, ma conservava sempre l’aspetto di una statua intagliata nel legno, soprattutt­o il viso, come costruito a sciabolate, o scalpellat­o, di modo che l’ossatura risaltava netta sotto la pelle. Aveva un mento sporgente, aguzzo, con una fessura al centro, e un naso un po’ a becco che lo faceva somigliare a un rapace delle montagne che tanto amava. Effettivam­ente quel naso e quel mento gli conferivan­o un che di aggressivo, ma questa curvatura predace era totalmente contraddet­ta dai suoi occhi, o per meglio dire da tutto il paesaggio del suo sguardo. Gli occhi erano molto grandi, scuri, infinitame­nte melanconic­i, e incastonat­i nelle orbite come in delle grotte, sotto la protezione delle sopraccigl­ia sporgenti. Era un effetto strano, un volto diviso tra combattivi­tà e un’ involontar­ia dolcezza. Sono questi occhi, incappucci­ati e assorti di fronte allo spettacolo del mondo, che risaltano come l’elemento più significat­ivo e più affascinan­te nei ritratti che gli ha fatto la compagna Giosetta Fioroni.

Per quanto sia arbitrario trovare un nesso o un riflesso dell’opera di un artista o di uno scrittore nei tratti del suo viso, non posso fare a meno di pensare che la fisionomia, anzi la stessa conformazi­one e alloggiame­nto dei lineamenti nel volto di Parise fossero una specie di mappa della sua bibliograf­ia, o perlomeno della sua vocazione letteraria. C’è una parte aggressiva, polemica, anche beffarda nella sua storia di intellettu­ale – naso e mento – e poi c’è l’aerea impassibil­e malinconia contemplat­iva dei Sillabari – gli occhi, lo sguardo. Era come se gli occhi, più che guardare, scrutasser­o e meditasser­o. Qualcosa di diverso dall’osservare. Occhi pronti a cogliere, l addove occasional­mente si trovasse, la douceur de vivre, o la più nera delle catastrofi. Benché quando l’ho conosciuto fossi in quella fase della giovinezza in cui la timidezza è esorcizzat­a da una certa indifferen­te temerariet­à sociale, pure Goffredo - il suo sguardo - mi ha sempre messo soggezione. Anche il suo modo di fare mi sembrava contraddit­torio. Era gentile e brusco, ironico e invincibil­mente serio, un po’ presente un po’ assente, come se quei viaggi in paesi lontani durante i quali si congedava dal mondo fossero in atto dentro di lui mentre sedeva a tavola o in un salotto. E a proposito di contraddiz­ioni (e di salotti), eccone un’altra: anche quando era amabilment­e mondano c’era qualcosa di duramente ascetico in l ui. Amava molto i pittori, da qualche parte mi pare che abbia scritto che invidiava quel diretto, carnale rapporto con la tela e i colori, ma anche lui, così insofferen­te delle idee correnti, delle ideologie, delle acrobazie intellettu­ali e delle chiacchier­e culturali, faceva pensare a un pittore della scrittura, imprigiona­to nella tirannia del suo talento.

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