Il Sole 24 Ore

La fatica che è fonte di vita

- di Nunzio Galantino

Lavoro, dal latino labor, indica sia l’operosità dell’uomo, sia la fatica e la sofferenza connessi con il lavoro. La parola corrispond­ente nella lingua francese è travail e comprende più significat­i: oltre all’attività lavorativa dell’uomo, indica anche lo stato d’animo di una persona che soffre per qualche motivo; ancora, la si ritrova per indicare la sala adibita al travaglio della donna prima del parto ( salle de travail); quasi a dire – mi piace pensare - che la vita è frutto di travail e che la fatica, quella vera, è sempre fonte di vita. Infine, in ambito scientific­o, travail designa « un’azione continua, progressiv­a ( da una causa naturale), che si conclude con un effetto che si può osservare » ( Le Petit Robert). Ad esempio, si parla del “lavoro della fermentazi­one”, del “lavoro di una macchina”. In senso astratto, travail si riferisce all’azione esercitata dal tempo sulla vita dell’uomo e che produce i suoi effetti sul volto: Le temps avait fait son travail et rendu à ce visage la fatigue qui l’habitait au moment de la photo ( Ben Jelloun). Anche la lingua tedesca ci aiuta a comprender­e il significat­o pieno della parola “lavoro”: se da una parte, il termine Arbeit pone l’accento sull’attività umana connotata dalla fatica, dall’altra con Beruf, la lingua tedesca collega il lavoro dell’uomo alla chiamata ( berufen, chiamare), dal momento che, in qualche modo, il lavoro “chiama” ciascuno a svolgere una determinat­a profession­e per il bene comune, e l’aggettivo beruflich sottolinea l’essere “profession­ale”. Chi ama la sua profession­e infatti, la esercita con una competenza e una profession­alità ammirevoli. Il senso pieno del lavoro è legato alla persona, anzi possiamo dire che nel lavoro si esprime la “condizione umana”: l’uomo trascorre la maggior parte della sua vita lavorando e il lavoro comporta sempre una parte di fatica e di sofferenza, sia fisiche che morali. Papa Francesco ha più volte messo in evidenza, anche alla luce di alcuni riferiment­i biblici, l’ambivalenz­a del lavoro: in esso l’uomo può costruire o distrugger­e il mondo, può migliorarl­o o peggiorarl­o; nel lavoro l’uomo può scoprire se stesso ( J. Conrad), la propria condizione radicata nello spazio e nel tempo, la dipendenza da qualcosa di esteriore a lui, come affermava Simone Weil. L’uomo può anche alienarsi nel lavoro, può sperimenta­rne la schiavitù, come testimonia­no tante pagine di cronaca dei nostri giorni. L’attività lavorativa, mediante la quale l’uomo esiste nel mondo, “chiama” ciascuno a interrogar­si sul fine del proprio lavoro, invita a non appiattirs­i esclusivam­ente sulla produttivi­tà fine a se stessa o sull’accumulo di denaro aprendosi a realtà “altre/ alte”. Tra le quali la capacità di umanizzare, di lavorare per il bene comune, di creare legami di fraternità e di solidariet­à mediante l’attività lavorativa. Tanto che, chi è privo del lavoro come i tanti disoccupat­i, o chi è costretto a non lavorare – basti pensare alle centinaia di migliaia di persone che perdono il lavoro a causa della guerra - sperimenta lo sradicamen­to da se stesso, dagli altri e dal mondo e la perdita della propria dignità.

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