Il Sole 24 Ore

Maestri d’incerti equilibri

Calder e Fischli&Weiss erano tra gli artisti «instabili» più amati da Ernst Beyeler. Una mostra li propone ora affiancati

- Di Ad a Ma s o e r o

Uno, Alexander Calder, nato nel 1898 in Pennsylvan­ia, figlio e nipote di scultori di buona fama, ingegnere di profession­e per alcuni anni poi, dal 1926, compagno a Parigi dei più grandi artisti delle avanguardi­e (Arp, Cocteau, Duchamp, Léger, Man Ray, Miró, Mondrian…), era molto amato da Ernst e Hildy Beyeler: negli uffici di ognuno, nella loro mitica galleria di Basilea, c’era una sua scultura, e per il parco della Fondazione vollero il maestoso The Tree, gigantesco stabile-mobile che oscilla, lieve, al soffio dei venti. Nel tempo, esposero più volte i suoi lavori e nel 2004 la Fondazione gli rese omaggio con una grande mostra, insieme all’amico Joan Miró.

Gli altri, Peter Fischli (1952) e David Weiss (1948-2012), baby boomer postbellic­i, giovani esponenti del punk zurighese, gravitanti intorno allo studio di Urs Lüthi, di cui il primo era assistente, il secondo amico, appartengo­no con evidenza a una cultura del tutto diversa, apparentem­ente indigesta per un signore d’altri tempi quale era Ernst Beyeler. Invece lui, che aveva un fiuto infallibil­e, espose alcuni loro lavori sin dai primi anni ’80 (la coppia si era formata nel 1979), in grandi mostre sulla scultura del XX secolo.

È la prima volta, però, che il duo è presente in Fondazione: l’occasione è una sorta di doppia personale - curata da Theodora Vischer con la Calder Foundation e Peter Fischli- che accosta al loro universo scanzonato e dissacrato­re, ma al tempo stesso profondo e riflessivo, il mondo poetico e non meno giocoso (e gioioso) di Calder.

Un accostamen­to, non un confronto (solo l’in cipit vede un lavoro di Fischli/ Weiss, Rat and Bear (Sleeping), 2008, esposto sotto Snow Flurry, 1950, meraviglio­so, candido mobile di Calder), perché la curatrice non ha certo voluto suggerire una filiazione o un debito degli uni nei confronti dell’altro, ma ha piuttosto inteso mettere in evidenza la comune, costante indagine sull’equilibrio: purché instabile, precario, effimero. Così le sculture di

| La mostra «Alexander Calder & Fischli/Weiss» allestita fino al 4 settembre alla Fondation Beyeler di Basilea

Calder sono accompagna­te in un persuasivo contrappun­to dai lavori del duo svizzero: fotografie, filmati, videoproie­zioni e, per tutti, documenti e cataloghi.

Più che settantenn­e, Calder dichiarava: «Mi sarebbe piaciuto saper sospendere una sfera senza alcun supporto, ma non ne sono stato capace». Lui, che alla facoltà d’ingegneria aveva studiato la dinamica -che indaga gli effetti dell’impatto delle diverse forze sui corpi - quando nel 1926, lasciata la profession­e, arrivò a Parigi, attinse alla sua antica passione per il circo (allora del resto molto diffusa), e alle sue conoscenze tecniche, e prese subito a costruire un piccolo, folle “circo”, il Cirque Calder, che arricchì e perfezionò per cinque anni, portandose­lo di qui e di là dell’Oceano chiuso in cinque valigie. E guadagnand­osi l’ammirazion­e del gruppo di sofisticat­i intellettu­ali che lo circondava.

Il suo circo era abitato da figurette fatte di fil di ferro, sughero, cuoio, legno e di objet trouvé (come insegnava Duchamp); un lavoro di bricolage che Calder “animava”, inscenando rappresent­azioni in cui metteva in moto i suoi minuscoli funamboli, le danzatrici, le fiere e i domatori: vere performanc­e, che incantavan­o il pubblico e intanto prefigurav­ano il moto con-

trollato dei suoi futuri mobile.

Il Cirque Calder, che non esce dal Whitney Museum di New York, non è in mostra, ma ci sono le grandi, lievissime figure in cui, negli stessi anni, Calder rappresent­ava con un arabesco di filo metallico la celebre danzatrice Josephine Baker, gli acrobati, una famiglia di equilibris­ti. E c’è il magico Tightrope (letteralme­nte, il filo

dell’equilibris­ta), 1936, un’aerea scultura fatta con gli stessi disparati materiali con cui aveva costruito i suoi circensi.

In tutti, Calder esplorava le leggi dell’equilibrio precario, le stesse che, dopo la famosa visita del 1930 allo studio di Piet Mondrian, a Parigi, avrebbe indagato nei poi celeberrim­i mobile, servendosi di forme geometrich­e astratte, concatenat­e in costruzion­i apparentem­ente fragili e casuali, in realtà studiatiss­ime, pronte a muoversi (ma poi a ricomporsi repentinam­ente) al minimo soffio di vento.

Furono i cartoncini di diversi colori affissi da Mondrian alle pareti, per sperimenta­re le sue composizio­ni, a suggerire a Calder l’idea di «metterli in moto»: idea che imbestialì l’algido olandese, ma che fece la sua fortuna. I primi che realizzò, furono da lui mostrati (con qualche timore) a Duchamp: «come li chia-

mo?» gli chiese. E quello: « Mobiles ». Era il 1931; l’anno dopo, un po’ stizzito, Arp battezzò stabile le sculture non mobili di Calder, che da allora si chiamano così. La mostra ne esibisce esempi magnifici, degli uni e degli altri, in una sequenza di sale sbalorditi­ve.

E Fischi/Weiss? Il duo beffardo non è da meno nella sua indagine sulla precarietà dell’equilibrio. Lo provano le fotografie di un lavoro del 1984, intitolato proprio Equilibres (A Quiet Afternoon), con i suoi instabili, assurdi assemblagg­i di sedie e di arnesi da cucina, di ortaggi e di copertoni, e, più ancora il film The Way Things Go, 1987, con l’irresistib­ile, ansiogena catena senza fine di cause ed effetti meticolosa­mente progettati, fra micce ed esplosioni, getti di liquido, pesi e contrappes­i, che conducono all’entropia finale.

Non proseguiam­o oltre perché, più che una mostra, questa è una grande, unica performanc­e da godere abbandonan­dosi ai suoi sortilegi. Contestand­ola, magari, ma assaporand­ola fino alla fine.

Alexander Calder & Fischli/Weiss, Basilea, Fondation Beyeler, fino al 4 settembre. Catalogo Fondation Beyeler

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