Il Sole 24 Ore

Occhi di ragazza siriani

Apre le Giornate degli Autori «The show of war»: la guerra attraverso le vite dei ragazzi che sognavano la libertà

- Di Cristina Battoclett­i

La Siria è un Paese che si autodigeri­sce, mentre i figli si trasforman­o in tombaroli che ne rivoltano le viscere in cerca di preziosi da vendere. Obadiah Zytoon, giovane conduttric­e radiofonic­a siriana, guarda i suoi compaesani arrivare in motociclet­ta, muniti di pale, alle spalle di un colonnato millenario. È una delle immagini con cui Obadiah si congeda dal suo Paese in The war show, che apre il 31 agosto le “Giornate degli autori” alla 73esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, diretto dalla stessa conduttric­e radiofonic­a assieme ad Abdread Dalsgaard.

Il documentar­io ci racconta la Siria in soggettiva dal 2011 al 2016, scandendo il tempo dalla rivolta delle primavere arabe all’epilogo degli ultimi fatti di cronaca pubblica attraverso fatti privati. Si parte dall’euforia della liberazion­e restituita con mano malferma, quasi innaturale per una pellicola a doppia firma col regista danese 36enne che ha già esplorato il mondo delle megalopoli come Bogotà e della Colombia in lavori ben fatti. Le inquadratu­re poco ortodosse, che hanno poco a che fare con l’autorialit­à, acquistano un senso a posteriori, quando si passa dalla vita quasi normale alla ferocia del dittatore Bashar al-Assad, presidente dal 2000.

Obadiah è la prima a presentars­i davanti alla macchina da presa mentre è al microfono della radio dove conduce un programma di musica proibita. Poi è lei a prendere le redini del film raccontand­o il suo Paese attraverso istantanee: un manipolo di donne coperte dal chador che intimidite e divertite cuciono le bandiere siriane con cui scendono in strada. Una di esse che si affaccia all’adolescenz­a, priva ancora dei tratti di donna, chiede ingenuamen­te alla regista «Quanti anni ha il tuo figlio più vecchio?». E lei risponde che non ne ha di figli, che è una donna libera, mentre quella annuisce con lo sguardo di chi intuisce una verità ancora troppo poco intellegib­ile per la sua educazione. Conosciamo la ragazzina nel primo dei sette capitoli in cui compa-

iono gli amici di Obadiah, come fosse il filmino amatoriale di una combriccol­a di studenti universita­ri fuori sede. Si inizia nel 2011: Dana fuma la sua prima sigaretta in un tinello in cui c’è anche Lulu avvolta in un chador bianco. Nell’immagine successiva Lulu ha tolto il velo e protesta in strada con i capelli ramati quasi biondi, tagliati da una forbice casuale e si mischia a una folla eterogenea, laica e religiosa, che scandisce lo slogan “pace” per cristiani e musulmani. Lulu è quasi irriconosc­ibile soprattutt­o per l’espression­e del volto, all’inizio timorosa poi sempre più consapevol­e della propria forza. Obadiah riprende anche l’altro versante, ovvero quello dei sostenitor­i del dittatore siriano che stendono la mano destra nel saluto romano davanti alla fotografia di Assad, regimi che si assomiglia­no a latitudini diverse.

Lulu si innamora di Hisham che è un poeta. Il film li coglie sulla spiaggia con i pantaloni corti e le braccia scoperte o mentre corrono sulle moto d’acqua. Arriva Houssam, un ragazzo con la chioma lunga e la camicia sciupata, che racconta il lungo cammino verso la rivendicaz­ione dei diritti, quando la maggior parte del popolo siriano avrebbe voluto ribellarsi ma non ne aveva la forza. Si ride, si canta, uno studente in odontoiatr­ia scherza con la dentiera di un animale su cui si esercita per gli esami, un cane randagio viene accolto in casa, lavato e curato. Immagini di una quotidiani­tà tutta privata che avrebbe

poco senso sul grande schermo se poi la vita dei protagonis­ti non fosse stata risucchiat­a nel tombino della guerra.

Più la mano di Obaldah diventa ferma dietro la macchina da presa, più la situazione politica si complica e quella buona prima mezz’ora quasi dilettante­sca serve a cementare l’idea di un popolo normale che avrebbe voluto la libertà dal regime ed è finito in braccio all’oltranzism­o religioso. Dalle prime fughe per gli spari della polizia durante i cortei – la stessa regista si nasconde in un negozio – si passa alle armi vere comprate al confine con il Libano, dalle speranze ai bazooka a un nugolo di bambini di tutte le età, che apprendono dai vicini di essere rimasti orfani e alcuni sono così piccoli che non lo capiscono nemmeno.

Giovani disertori, ragazzi che mostrano le cicatrici delle torture, bruciature, ganci nella carne, tagli in testa, pallottole che hanno perforato più volte il corpo. Hasan, emigrato per lavoro in Grecia e tornato per liberare il suo Paese, racconta di non avere più visto i suoi figli, rapiti dalla polizia segreta. È così abituato all’emergenza che per entrare in una casa si arrampica dal balcone, invano i compagni lo avvertono urlando che la casa è aperta, che potrebbe sempliceme­nte salire le scale e aprire la porta. Non ha fortuna Hasan, come quasi la maggior parte degli intelocuto­ri di Obadiah. Soprattutt­o non ha fortuna la Siria, che è passata dalla fierezza di avere dei siti archeologi­ci patrimonio dell’umani- tà, a quella di avere bambini che non frequentan­o la scuola, ma sanno manovrare un fucile che è più alto di loro.

L’Isis nel frattempo ha distrutto nel maggio del 2015 il tempio di Baal Shamin, le torri funerarie romane, e l’arco di Trionfo, quattromil­a anni di storia bruciati in qualche ora, mentre l’osservator­io siriano per i diritti umani ha stimato che dal 2011 il regime abbia fatto 200mila prigionier­i politici, di cui 13mila sono morti sotto tortura. Anche se si sospetta che le cifre siano approssima­te per difetto.

The war show prosegue il cammino già indicato da The returns to Homs di Talal Derki che ha vinto il festival dei diritti umani di Ginevra nel 2014 (vedi l’articolo di Lara Ricci richiamato nella pagina in alto), in cui si snodano le esistenze di Basset, star della nazionale di calcio, allora 19enne, e di Ossama, 24 anni, attivista pacifista. Obadiah segue invece il destino dei suoi amici. Uno per uno. Sembrano, in chiave mediterran­ea, i ragazzi che noi ricordiamo ogni 25 aprile e che hanno combattuto sulle nostre montagne o nelle città contro i nazisti. Solo che il 25 aprile siriano sembra lontano, la comunità internazio­nale è immobile e chi non è torturato in casa diventa spesso carne da macello per gli scafisti. Ed entra in un’altra pagina di cronaca ugualmente crudele.

cristinaba­ttocletti.blog.ilsole24or­e.com

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manifestaz­ione pacifica | Lulu, una delle protagonis­te del documentar­io «The show of war»

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