Monicelli non le mandava a dire
Il mio sogno? Essere Luis Buñuel. Così nel 2004, quasi novantenne, racconta Mario Monicelli a Sebastiano Mondadori. Quell’intervista, pubblicata nel maggio 2005, poco prima della sua morte, viene ora riedita dal Saggiatore. Un’ottima occasione per ritrovare l’opera e l’intelligenza di uno dei nostri uomini di cinema più grandi.
« Quando mi domandano quale regista mi sarebbe piaciuto essere, rispondo sempre Buñuel » , sostiene dunque Monicelli in La commedia umana. Poi, giusto per non abbassare il tiro, racconta di avere usato la ( geniale) pomposità di Vittorio Gassman negli incontri con la Morte in Palestina, per « prendere un po’ per il culo » l’Ingmar Bergman di Il settimo sigillo. Era così, l’autore dei due Brancaleone ( 1966 e 1970), sarcastico, spigoloso, sincero fino a essere imbarazzante.
Bernardo Bertolucci? È bravo a muovere la macchina presa, ma il suo cinema è magniloquente, costruito, falso. Lo stesso vale per quello di Luchino Visconti, «teatrale, coerente con la sua formazione personale e il suo gusto». Si concordi, o si pensi che, almeno a proposito di Visconti, Monicelli ripeta un pregiudizio diffuso, in ogni caso se ne deve ammirare la capacità di non mandarle a dire. Né più indulgente è con se stesso.
Totò e Carolina? Su quel suo film del 1953, censurato dal potere politico e religioso, e anche per questo osannato dalla critica, Monicelli non ha dubbi: tutto sommato, « non era questa gran cosa. I tagli stessi non l’hanno mutilato più di tanto, si trattava di una storiella senza tante pretese » . Quanto a Facciamo paradiso, del 1995, il titolo sarà anche bello, « ma è talmente brutto il film… » . Mal riuscito – « mi è venuto proprio male » – è anche Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, del 1984. Non solo a causa di un Lello Arena incapace di reggere il ruolo di Alboino, ma anche perché « non lo sceneggiammo con la dovuta profondità, sfruttando male tutti gli aneddoti di ( Giulio Cesare) Croce » .
Non di aneddoti, seppur storicoletterari, ma di densa attualità italica è comunque intessuto il suo cinema. Lo è a tal punto, che legando film a film ne verrebbe la storia recente del nostro Paese. E si tratterebbe di una commedia, anzi di una tragicommedia.
« La vita è una selva di disgrazie, con qualche sventura » , dice Gassman in L’armata Brancaleone . Allora, nel 1966, l’Italia può ancora ridere del pressapochismo straccione e velleitario di un manipolo di antieroi che – così pare – ne rappresenta i molti difetti, insieme con qualche ( talvolta non minima) virtù. Ne ride, appunto, perché in questo e negli altri suoi film migliori Monicelli racconta la vita nazionale rovesciandone le disgrazie in riso. E soprattutto perché lo fa rifiutando di raccontare storie a tesi.
Il mio cinema è di sinistra, afferma, o se si vuole è democratico, nel senso che sta «dalla parte dei deboli», mettendo in luce le ingiustizie. Ma certo non è assertivo, e ancora meno ideologico. Affine al mio modo di vedere la vita, «non mostra mai direttamente il dramma». Sono nemico delle scene madri, continua, e ho una vera predilezione «per le scene figlie». Dunque, amo raccontare la vita attraverso i suoi riflessi, che la alleggeriscono con il comico.
Vista attraverso questo filtro, l’Italia che Monicelli racconta è una selva di disgrazie, con qualche sventura, appunto… E però, aggiunge verso la fine dell’intervista, qualcosa nei decenni è cambiato: non gli italiani, che restano quel che erano, ma le condizioni in cui gli italiani vivono. La ricchezza ci ha trovato impreparati, e ci ha sommerso nella volgarità. In fondo, pare concludere, questo racconta nel suo complesso il mio cinema, decennio dopo decennio: la storia di un fallimento.
Era sarcastico e spigoloso, il grande Mario Monicelli. Ed era ancor più sincero, non temendo d’essere imbarazzante. Per questo, se anche non gli è riuscito d’essere Buñuel, gli è ben riuscito d’essere se stesso.
Mario Monicelli, La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori, Il Saggiatore, Milano, pagg. 344, 38 foto, € 24