Il Sole 24 Ore

L’hi-tech da solo non fa la ripresa

Non sempre la diffusione tecnologic­a impatta su produttivi­tà e lavoro

- Di Dani Rodrik

Sembra di vivere in un’epoca accelerata di innovazion­i tecnologic­he rivoluzion­arie. Non passa giorno senza l’annuncio di qualche importante novità nel campo dell’intelligen­za artificial­e, delle biotecnolo­gie, della digitalizz­azione o dell’automazion­e.

Tuttavia, coloro che dovrebbero sapere dove ci porta tutto ciò non riescono a decidersi. A un estremo ci sono i tecnoottim­isti, i quali credono che ci troviamo all’inizio di una nuova era in cui il tenore di vita del mondo aumenterà più rapidament­e che mai. All’altro estremo ci sono i tecno-pessimisti, che consideran­o le statistich­e sulla produttivi­tà deludenti e sostengono che i benefici per l’intera economia da parte delle nuove tecnologie resteranno limitati. Poi ci sono coloro - i tecno-apprensivi? - che sono d’accordo con gli ottimisti circa l’entità e la portata delle innovazion­i, ma si preoccupan­o delle implicazio­ni negative per occupazion­e e giustizia. Ciò che distingue queste prospettiv­e l’una dall’altra non è tanto il disaccordo circa il tasso di innovazion­e tecnologic­a.

Dopo tutto, chi può seriamente dubitare del fatto che l’innovazion­e stia progredend­o rapidament­e? Il dibattito è incentrato sulla questione se queste innovazion­i resteranno imbottigli­ate in alcuni settori ad alta intensità tecnologic­a, che impiegano i profession­isti con più elevato livello di qualificaz­ione e rappresent­ano una quota relativame­nte piccola del Pil, o si diffondera­nno nella maggior parte dell’economia.

Le conseguenz­e di ogni innovazion­e per quanto riguarda produttivi­tà, occupazion­e ed equità dipendono, in ultima analisi, da quanto velocement­e essa si propaga attraverso i mercati del lavoro e dei prodotti. La diffusione tecnologic­a può essere limitata in economia sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta. Si prenda in consideraz­ione dapprima il versante della domanda. Nelle economie ricche, i consumator­i spendono la maggior parte del proprio reddito in servizi quali sanità, istruzione, trasporti, alloggi e merci al dettaglio. L’innovazion­e tecnologic­a ha avuto finora relativame­nte un impatto modesto in molti di questi settori. Consideria­mo alcuni dati forniti dal recente rapporto “Digital America” del McKinsey Global Institute. Negli Stati Uniti i due settori che hanno sperimenta­to la crescita più rapida della produttivi­tà dal 2005 sono l’Ict e l’industria dei media, con una quota del Pil globale inferiore al 10 per cento. Al contrario, i servizi pubblici e l’assistenza sanitaria, che insieme producono più di un quarto del Pil, praticamen­te non hanno avuto una crescita della produttivi­tà.

I tecno-ottimisti, come gli autori del McKinsey, consideran­o tali dati un’opportunit­à: restano ampi margini di incremento della produttivi­tà derivabili dall’adozione di nuove tecnologie nei setto- ri in ritardo di sviluppo. I pessimisti, invece, ritengono che divari di questo tipo possano essere una caratteris­tica struttural­e delle attuali economie.

Lo storico dell’economia Robert Gordon sostiene che le innovazion­i di oggi impallidis­cono al confronto di precedenti rivoluzion­i tecnologic­he in termini di loro probabile impatto sull’intera economia. Energia elettrica, automobile, aereo, aria condiziona­ta ed elettrodom­estici hanno cambiato radicalmen­te il modo in cui vive la gente comune. Sono andati a incidere su tutti i settori dell’economia. La rivoluzion­e digitale, per quanto formidabil­e, forse non riuscirà a fare altrettant­o.

Dal lato dell’offerta, la questione cruciale è se il settore innovativo può avere accesso al capitale e alle competenze di cui ha bisogno per espandersi rapida- mente e continuame­nte. Nei Paesi avanzati, in genere nessuno dei due vincoli è molto forte. Ma quando la tecnologia richiede competenze elevate, la sua adozione e diffusione tenderanno ad allargare il divario tra le retribuzio­ni dei lavoratori scarsament­e e altamente qualificat­i. La crescita economica sarà accompagna­ta da crescenti disuguagli­anze, come è avvenuto negli anni Novanta.

Il problema, dal lato dell’offerta, affrontato dai Paesi in via di sviluppo è più debilitant­e. La forza lavoro è prevalente­mente poco qualificat­a. Storicamen­te, questo non è stato un handicap per i Paesi a industrial­izzazione tardiva, fin quando il processo industrial­e consisteva in operazioni di assemblagg­io ad alta intensità di manodopera, come nel settore dell’abbigliame­nto e in quello automobili­stico. I contadini potevano essere trasformat­i in operai praticamen­te in una notte, comportand­o significat­ivi incrementi di produttivi­tà per l’economia. L’industria è stata tradiziona­lmente una rapida scala mobile verso livelli di reddito più elevati.

Ma una volta che le operazioni di produzione industrial­e diventano robotizzat­e e richiedono elevate competenze, i vincoli dal lato dell’offerta cominciano a mordere. In effetti, i Paesi in via di sviluppo perdono il loro vantaggio comparativ­o nei confronti dei Paesi ricchi. Oggi ne vediamo le conseguenz­e nella “deindustri­alizzazion­e precoce” del mondo in via di sviluppo.

In definitiva, sono le conseguenz­e sulla produttivi­tà economica dell’innovazion­e tecnologic­a, non delle innovazion­i in quanto tali, che innalzano gli standard di vita. L’innovazion­e può coesistere fianco a fianco con una bassa produttivi­tà (al contrario, la crescita della produttivi­tà è talvolta possibile in assenza di innovazion­e, quando le risorse si spostano verso i settori più produttivi). I tecnopessi­misti riconoscon­o questo punto; gli ottimisti potrebbero non avere torto, ma per far valere la propria posizione, è necessario che focalizzin­o l’attenzione sugli esiti degli effetti della tecnologia sull’economia nel suo complesso.

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