Effetto Fed sulle Borse, corrono i listini europei
Draghi: troppe banche in Europa riducono i margini di profitto
La decisione della Fed di rinviare la stretta sui tassi ha spinto al rialzo le Borse europee. Il rimbalzo è stato guidato da Parigi (+2,27%) e Francoforte (+2,20%), mentre Piazza Affari ha chiuso a +1,76%. L’effetto Fed si è esteso anche a Bund e BTp che hanno messo a segno la migliore seduta almeno dal giorno di Brexit.
Intanto il presidente della Bce, Mario Draghi, avverte: troppe banche in Europa riducono i margini di profitto.
Seguire la Federal Reserve come di consueto o piuttosto prestare maggiore attenzione alla Banca del Giappone? Alla vigilia del gran giorno delle Banche centrali il dubbio aleggiava fra la maggior parte degli operatori che guardano all’Europa: a Washington si stava per riunire l’organismo forse più influente a livello mondiale, ma a Tokyo si doveva decidere il futuro di una politica monetaria che assomiglia di più a quella della Banca centrale europea, proprio perché alle prese con i problemi tipici di una fase di espansione (e non di normalizzazione come per la Fed).
La risposta del mercato è arrivata puntuale il giorno successivo, cioè ieri, ed è evidente soprattutto nel comportamento dei tito- li di Stato dell’Eurozona. Per BTp, Bund e soci è stata infatti la miglior seduta almeno dal giorno della Brexit, ma questo non racconta certo tutta la storia, perché a ben vedere il movimento è stato particolarmente accentuato sulle scadenze più lunghe (10 centesimi in meno su rendimenti dei decennali) e minore, se non addirittura inesistente, su quelle a corto raggio.
In altre parole, e per dirla con termini familiari agli addetti ai lavori, la curva dei tassi europea si è notevolmente appiattita e il motivo, a detta di tutti, è l’analogo spostamento che ha interessato i rendimenti delle obbligazioni negli Stati Uniti dopo l’esito della riunione Fed e la successiva conferenza stampa del presidente Janet Yellen. La Banca centrale americana ha in effetti aperto la strada a un possibile rialzo del costo del denaro a dicembre, ma al tempo stesso ha ridotto le proiezioni sui tassi a medio lungo termine, lasciando quindi negli operatori l’impressione che il cammino verso la normalizzazione della politica monetaria possa procedere in modo ancora più graduale di quanto non fosse ipotizzabile qualche giorno fa: di qui la tenuta dei rendimenti Usa a breve (fino ai due anni sono rimasti sostanzialmente invariati) e la riduzione di quelli a medio/lungo termine (dai 7 anni in su).
La decisione con cui la BoJ qualche ora prima aveva invece deciso di porsi un vero e proprio obiettivo di rendimento per il titolo di stato decennale giapponese, anziché abbassare ulteriormente i tassi a breve attualmente a -0,1% o aumentare il ritmo di riacquisti rispetto agli attuali 80mila miliardi di yen mensili, era stata letta in senso opposto da molti analisti. «Tutto questo - notava infatti Alfonso Maglio, gestore di Marzotto Sim - si tradurrà probabilmente in un irripidimento della curva a tutto vantaggio di banche e fondi pensione la cui redditività è fortemente legata ai titoli di stato e al mercato monetario».
Ed è quindi significativo che, in presenza di due mosse dagli effetti in teoria diametralmente opposti, gli operatori impegnati sul mercato europeo abbiano deciso di seguire non tanto quella adottata dall’istituto centrale nella situazione forse più vicina a quella della Bce, quanto quella della Banca più influente, da sempre. Così come da sempre (o almeno negli ultimi tempi) l’andamento dei Bund tedeschi a scadenza medio-lunga risulta maggiormente correlato a quello dei Treasury Usa, con tanti saluti a quanti ormai da tempo parlano di divergenza delle politiche monetarie adottate sulle due sponde dell’Atlantico.
Certo, non mancano anche fra gli economisti quanti tendono a ridimensionare il fenomeno. UniCredit Research, per esempio, propendeva ieri per giustifi- care il mancato aggancio dei titoli europei a quelli giapponesi con il fatto che la BoJ ha in fondo soltanto stabilito di controllare la curva dei rendimenti, anziché renderla più ripida come molti si aspettavano prima della riunione, e in questo modo avrebbe provocato una sorta di «delusione» fra gli investitori.
Senza contare che in fondo, con il movimento di ieri, i bond dell’Eurozona (e anche le Borse) non hanno fatto altro che annullare le perdite sofferte dopo la riunione Bce dello scorso 8 settembre, che aveva diffuso un senso di scetticismo sulla prosecuzione e anche sull’efficacia delle politiche espansive attuate sia a Francoforte, sia altrove. L’impressione di fondo però resta inalterata: relegare in secondo piano l’influenza degli Stati Uniti e della sua potentissima Banca centrale non è risultato che si può ottenere da un giorno all’altro.
DIVERGENZA APPARENTE Fra politiche monetarie in teoria diametralmente opposte gli operatori europei danno rilievo alla Banca centrale più potente e non a quella più «vicina»