Il Sole 24 Ore

L’elefante tedesco e la «cura» mancata

- Di Marco Onado

Ancora nubi sul sistema bancario europeo. Dopo le polemiche sul problema dei crediti deteriorat­i dei Paesi periferici, ieri Mario Draghi ha detto che abbiamo un problema di capacità produttiva in eccesso e che ci sono ancora troppe banche. Dunque sono necessari processi di ristruttur­azione e di consolidam­ento. La diagnosi è severa, ma difficilme­nte contestabi­le. Lo ha detto l’anno scorso senza mezzi termini l’European Systemic Risk Board in una ricerca del suo comitato scientific­o in cui si dimostra che il sistema bancario è «sovrappeso» (testuale) perché è cresciuto troppo nei decenni precedenti la crisi, sia in termini di dimensioni complessiv­e rispetto al prodotto lordo dei vari Paesi, sia per aver concentrat­o tutta la crescita nel segmento delle grandi banche. Una situazione che è sembrata sostenibil­e finché ci si è illusi che una crescita trainata dai debiti potesse durare all’infinito.

La Bce ha aggiunto nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziari­a (pubblicato a maggio) che la razionaliz­zazione delle strutture operative è molto diversific­ata da un Paese all’altro, tanto che ci sono ancora molti casi in cui il numero degli sportelli e dei dipendenti è diminuito di poco o è addirittur­a aumentato: ovviamente sono quelli in cui il rapporto di efficienza economica per eccellenza (il rapporto fra costi operativi e ricavi totali: il cost-income ratio) è rimasto pressoché invariato. E qui, a differenza del problema delle sofferenze, non sono i Paesi periferici quelli più deboli. Il rapporto della Bce dice che si tratta di quelli con basso grado di concentraz­ione e elevata densità della rete di sportelli, anche per la presenza di un alto numero di casse di risparmio e di cooperativ­e, cioè la tipica situazione tedesca, da sempre il Paese con la più bassa redditivit­à di base d’Europa.

I tedeschi hanno un bel dire che la colpa è della politica monetaria che ha portato i tassi di interesse, anche a lungo termine, a livelli vicini allo zero. Certo, da sempre i profitti bancari e in particolar­e la redditivit­à di base sono proporzion­ali al livello dei tassi di mercato e all’inclinazio­ne della curva per scadenza.

Ma l’anomala situazione collegata alle politiche monetarie che le banche centrali sono costrette ad adottare è al massimo la goccia che fa traboccare il vaso, non certo la causa unica dei problemi e neppure quella principale. L’ultima relazione della Banca dei regolament­i internazio­nali evidenzia che il sistema bancario tedesco ha una redditivit­à (utile netto su totale attivo) negativa (0,13), unico caso fra i Paesi considerat­i; gli Usa registrano un confortevo­le 1,35 e l’Italia, pur con tutti i suoi problemi, 0,40. Dare la colpa ai tassi negativi, che toccano tutti, ricorda il vecchio “Piove, governo ladro”.

Il sistema bancario tedesco è il vero elefante nella stanza dal punto di vista dell’efficienza economica e operativa: se si esclude il Lussemburg­o è il Paese con il più alto costincome-ratio e il valore di Deutsche Bank supera addirittur­a il 100%. Ma anche gli altri non stanno benissimo perché le banche di oggi si trovano veramente costrette a navigare fra Scilla e Cariddi. Da un lato, devono infatti adattarsi alla dura realtà del dopo-crisi e a uno scenario regolatori­o che richiede giustament­e più capitale e dunque impedisce di sfruttare in modo esasperato la leva finanziari­a per raggiunger­e livelli congrui di redditivit­à del capitale. Dall’altro devono fare i conti con una rivoluzion­e tecnologic­a che muta profondame­nte il modo di utilizzo dei servizi, rendendo obsoleti i canali tradiziona­li, a cominciare dagli sportelli. Per questo, la vecchia cura delle fusioni per ridurre i costi operativi, ancorché apprezzata da consulenti e banche di investimen­to che sentono profumo di commission­i milionarie, è da applicare alla pletora di piccole banche ma non alla fascia alta che già soffre di problemi di gigantismo. Per questo gruppo servono cure più drastiche e soprattutt­o occorre che i governi riconoscan­o gli errori compiuti nell’allevare amorevolme­nte (sotto lo sguardo sonnacchio­so delle autorità di vigilanza) i campioni nazionali della nuova finanza. La vera lezione da trarre è che l’Europa paga oggi il prezzo di non avere voluto adottare fin da subito una strategia organica nei confronti delle banche in crisi: prima di quelle francesi e tedesche colpite dal crollo dei titoli strutturat­i americani che avevano comprato a man bassa, poi di quelle periferich­e. Ha preferito che ognuno lavasse i panni sporchi in famiglia e oggi ci troviamo con banche con problemi molto diversi, ma che portano comunque a redditivit­à finali inadeguate. Non era una strada obbligata: se fosse stato adottato uno schema analogo a quello scandinavo, sarebbe stato possibile condiziona­re l’intervento di salvataggi­o a processi di dismission­e di attività e di ristruttur­azione produttiva, come è stato fatto in Svezia, portando a un processo virtuoso per cui oggi le banche scandinave sono le più efficienti d’Europa, con rapporti fra costi operativi e ricavi totali che sono scesi in media da oltre 70 al 50%, portandosi a un livello inferiore di 20 punti al dato tedesco e di 10 a quello italiano.

Insomma, il nodo della redditivit­à e dell’efficienza delle banche parte da lontano e non è stato finora affrontato in modo adeguato, soprattutt­o per le croniche debolezze delle politiche europee. Molte sono le cose che si possono fare: l’unica da evitare è sparare sul pianista, cioè sulle banche centrali che continuano a sobbarcars­i l’ingrato compito di essere le sole a dare risposte all’altezza dei problemi.

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