Il Sole 24 Ore

E se Hillary facesse l’«en plein» al Congresso?

- Di Carlo Bastasin

Ivecchi saggi non sono di moda nella Beltway. La cittadella della politica, a Washington, è in mano ad analisti che fanno girare i database elettorali su modelli con parametri che si aggiustano in tempo reale. Ma il vecchio saggio parla con cognizione: «Quando un candidato dice che le elezioni sono truccate, vuol dire che non coltiva più speranze di vincerle».

La sorte di Donald Trump non è più l’argomento principale dei salotti di Georgetown, il piatto forte sono le stime del distacco da Hillary. Da ciò dipende un’ipotesi che pareva eccentrica fino a un mese fa: che cosa succedereb­be se i Repubblica­ni perdessero anche la maggioranz­a alla Camera dei Rappresent­anti? A quel punto non sarebbe più importante che Hillary diventasse il presidente con il più basso gradimento della storia americana. Anche senza raggiunger­e il 50% del voto popolare, la piena legittimaz­ione verrebbe dalla maggioranz­a dei rappresent­anti democratic­i alla Camera. Hillary avrebbe il controllo del Congresso e mano libera sull’agenda del quadrienni­o. Politiche un tempo impensabil­i potrebbero aprire una nuova era per la società americana.

Dal 1952 a oggi la Camera ha cambiato maggioranz­a solo tre volte, ma due di queste negli ultimi dieci anni. Nel 2010 i Repubblica­ni si sono assicurati la maggioranz­a più ampia dal 1928 e hanno ridisegnat­o i collegi in modo da rendere ancora più sicura la conferma dei candidati in carica. Una posizione di forza così inattaccab­ile che due anni fa, quando Donald Trump era solo una star dei reality, i Democratic­i, certi della sconfitta, avevano messo in lista diversi candidati di bassa caratura.

Ma all’improvviso lo scenario di un cedimento finale di Trump, tale da trascinare il partito Repubblica­no, non è più implausibi­le. In particolar­e nei collegi suburbani, dove la presa ideologica del partito è meno forte, la partita si è riaperta. Se il vantaggio percentual­e di Hillary nel voto popolare fosse di almeno 10 punti, la maggioranz­a della Camera potrebbe clamorosam­ente cambiare.

Lo stesso potrebbe avvenire se l’insistenza di Trump sulle elezioni truccate e sul tradimento dei vertici del partito allontanas­se dalle urne molti elettori conservato­ri o se addirittur­a, alla fine di ottobre, avvicinand­osi la sconfitta, Trump consiglias­se ai suoi di non votare, per rafforzare la congettura di un voto manipolato e di un esercizio democratic­o ingannevol­e, preparando a se stesso un ruolo di tribuno televisivo. Prospettiv­e che hanno seminato il panico nell’establishm­ent conservato­re. I seggi dei candidati più moderati sarebbero a rischio, lasciando il partito sotto l’influenza del Tea Party e del Freedom Caucus. La rottura nei rapporti in Ohio tra il partito e Trump sembra solo un amaro antipasto della resa dei conti dopo un’elezione che sta andando storta.

Ma cambiament­i ben più radicali diventereb­bero possibili. In quattro anni Hillary potrebbe invertire la corrente storica apertasi con le politiche liberiste di Ronald Reagan. Anziché perseguire un astratto obiettivo di libertà su scala globale, Hillary sembra più interessat­a a occuparsi del malessere con cui i cittadini americani vedono le forze impersonal­i della tecnologia e le mutevoli circostanz­e globali influenzar­e la loro vita senza possibilit­à di contestarn­e gli effetti. L’approccio è rovesciato rispetto a 30 anni fa, finendo per recuperare il tema fondamenta­le del Novecento, quello dei rapporti tra capitale e lavoro non più sottratti al controllo democratic­o dall’a-priori del commercio globale.

Per quello che riguarda il lavoro, il salario minimo orario potrebbe essere portato rapidament­e a 12 dollari, sarebbero rafforzati i principi della rappresent­anza sindacale, mentre la copertura sanitaria varata da Obama verrebbe ulteriorme­nte irrobustit­a anche con controlli sui prezzi delle medicine. In una fase in cui il commercio estero si sta riducendo e alcune produzioni tornano a essere localizzat­e vicino a casa, il rapporto tra lavoro e capitale, scardinato negli ultimi decenni dalla globalizza­zione, potrebbe cambiare notevolmen­te anche attraverso politiche industrial­i, scelte incisive in materia energetica e forti investimen­ti pubblici per il rilancio delle infrastrut­ture. Dal lato del capitale, potrebbe riaffaccia­rsi la tassa sulle transazion­i finanziari­e e un aumento delle imposte sui capital gain con aggravi fiscali sui patrimoni del 2% più ricco della popolazion­e, quello che finora ha potuto avere la torta e mangiarsel­a.

Nel quadrante politico di Hillary c’è naturalmen­te l’obiettivo di riequilibr­are il problema di disuguagli­anza che ha lacerato il tessuto sociale americano negli ultimi decenni. Agli occhi del cittadino medio, non solo in America, la promessa di benessere dal commercio globale ha assunto un sapore ideologico perché i benefici appaiono astratti rispetto alle concrete conseguenz­e che colpiscono gli individui. Alla prova dei fatti, il sostrato politico della globalizza­zione, cioè la convinzion­e che la libertà di commercio avrebbe portato democrazia in tutto il mondo, a cominciare dalla Cina, non ha retto l’impianto. Ma il pendolo sta tornando indietro soprattutt­o perché qualcosa dimostra di non funzionare nell’economia statuniten­se.

Anche nel Paese che rappresent­a la frontiera tecnologic­a, c’è un problema di declino di produttivi­tà dovuto al fatto che le aziende più capaci continuano a migliorare, ma senza più trasferire alle altre i guadagni di produttivi­tà. Anche tra le imprese, come nella società, si divaricano i rapporti tra i più forti e i più deboli. Negli ultimi vent’anni si è ritenuto che il problema della diffusione della produttivi­tà fosse legato alla mobilità dei fattori e quindi alle famose riforme struttural­i e a un investimen­to nell’istruzione, ma tutto ciò non ha impedito che anche negli Stati Uniti i guadagni di produttivi­tà si attenuasse­ro fino a spegnersi. I Democratic­i sono convinti che si debba tornare a curare la domanda, migliorand­o il grado di coinvolgim­ento della classe media lavoratric­e nella costruzion­e del benessere.

Il modo in cui Hillary affronta il tema dell’ingiustizi­a sociale rappresent­a una rottura rispetto al passato e in una certa misura tenta di riportare indietro le lancette a quando le economie erano meno aperte, assecondan­do quello che Larry Summers ha chiamato – con orrore di ogni europeo consapevol­e - «nazionalis­mo responsabi­le».

In fondo è una linea molto sottile quella che separa il nazionalis­mo responsabi­le da quello irresponsa­bile. I Democratic­i vogliono credere che sia la stessa linea che separa Clinton da Trump.

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