Il Sole 24 Ore

I tempi lunghi della transizion­e di Pechino

- Giuliano Noci

Itifosi della “decrescita infelice” dell’economia cinese le studiano tutte. L’esercizio si appoggia vuoi sulla cautela espressa da un passo di una nota del China’s National Bureau of Statistics («le basi struttural­i di una crescita economica continuati­va non sono ancora sufficient­emente solide») vuoi sul pessimismo di Zhu Haibin, capo del settore Cina alla JP Morgan di Hong Kong il quale afferma che «solo il commercio al dettaglio e gli investimen­ti hanno rispettato le previsioni», mentre l’unica delusione proviene dalla produzione industrial­e, cresciuta al ribasso del 6,1 % a settembre, un numero secondo Zhu “pretty soft”. Ma i dati pubblicati ieri dall’ufficio di statistica cinese evidenzian­o una tabella di marcia della crescita del Paese coerente con gli obiettivi fissati dalla leadership. “Stabile” è stata generalmen­te giudicata la performanc­e dell’economia nazionale, con una crescita migliore delle aspettativ­e. E come sempre più spesso capita in questi mesi il coro pressoché unanime lamenta il fardello del debito, la bolla del real estate e la overcapaci­ty di taluni settori produttivi (in primis, l’acciaio), tre temi capaci di far vedere i sorci verdi ai politici cinesi.

Ma ci troviamo ancora una volta a fronteggia­re un isomorfism­o di pensiero non coerente con il reale stato dell’economia cinese. Il Governo cinese per primo è infatti consapevol­e che un modello di crescita trainato dagli investimen­ti ha il fiato corto. Da qui i tre pilastri fondamenta­li della trasformaz­ione: 1) facilitare l’incremento della produttivi­tà della manifattur­a cinese ; 2) liberare, anche attraverso l’ecommerce, l’enorme potenziale di spesa della classe media cinese (il cui livello si attesta oggi al 20% di quello dei Paesi avanzati); 3) sostenere la crescita del capitale umano avendo deciso di mettere sul tavolo oltre 200 miliardi di dollari all’anno a sostegno del sistema universita­rio. Azioni concrete dunque che spalancano spazi di crescita, in chiave comparata con l’occidente, enormi. Tutto questo non significa che non vi siano questioni da affrontare con la dovuta attenzione. Esiste, sicurament­e, un “problema debito” sia nell’ammontare – triplicato negli ultimi 7 anni - che nella sua qualità – oltre 200 miliardi di $ di Npl -. Ma è tuttavia esagerato l’allarme che da più parti si lancia. In un’economia a forte controllo governativ­o infatti non tutti i (cattivi) debiti delle banche si trasforman­o in perdita netta; le riserve di liquidità della Banca centrale sono peraltro tali che anche l’opzione meno auspicabil­e (intervento pubblico diretto) appare ancora oggi del tutto gestibile. I prezzi e i volumi del real estate sono certamente esplosi in quasi tutta la Cina. Anche qui, due consideraz­ioni: larga parte delle transazion­i realizzate negli ultimi anni sono realizzate dalle famiglie, che notoriamen­te manifestan­o in Cina una elevata propension­e al risparmio; al rischio paventato di un crollo dei prezzi si contrappon­e il dato di 400 milioni di persone che premono verso le città aprendo enormi spazi di occupazion­e (e sostegno dei prezzi). Infine per quel che concerne l’industrial overcapaci­ty c'è ovviamente molto da fare; non si può dire comunque che manchino sforzi per aumentare il contenuto di valore aggiunto dell’output cinese; dal 2007 al 2015 gli investimen­ti in R&S sono aumentati del 120% (passando da 50 a 400).

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