L’incognita banche centrali e il braccio di ferro euro-dollaro
Occhi ormai puntati su dicembre, quando Fed e Bce sveleranno le loro mosse
Conta più la debolezza dell’euro o la forza del dollaro? Nella giornata in cui la «non-decisione» della Bce guidata da Mario Draghi ha creato come prevedibile una certa volatilità sui mercati valutari è difficile sciogliere un simile dubbio, anche per gli operatori. A una valuta comune che scivola decisamente sotto quota 1,10 ai minimi da marzo si accompagna infatti un biglietto verde che da parte sua mostra i muscoli nei confronti del mondo intero, e non soltanto sull’Eurozona, come conferma il dollar index ai massimi anch’esso da sette mesi.
Si potrebbe ribattere che la composizione del paniere valutario Usa è fortemente sbilanciata (quasi al 60%) proprio sul cambio euro/dollaro, e che quindi una moneta tragga in fondo la propria forza dalla debolezza dell’altra. Volendo però uscire da ciò che appare come una spirale che si autoalimenta c’è da notare che fra i due fenomeni, uno tende a essere movimento di fondo, costante nelle ultime settimane, l’altro invece sembra più una sorta di elemento di disturbo, tale cioè da creare volatilità nel breve se non addirittura bre- vissimo termine.
Non è difficile individuare in quest’ultimo l’irrequietezza dell’euro, evidente ieri alle parole di Mario Draghi: il presidente della Bce ha prima ha «gelato» gli operatori ricordando loro che il quantitative easing non sarà eterno e che ancora non si è discusso di un suo prolungamento oltre marzo 2017, poi è apparso rassicurante quando ha escluso categoricamente un’interruzione improvvisa del piano di riacquisti. Sui due segnali non necessariamente contrapposti (in fondo si apre la strada a un tapering, cioè una graduale riduzione dello stimolo monetario, ma non prima di 5 mesi) il mercato alla fine ha deciso di porre l’accento soprattutto su quest’ultimo.
Volatilità come quella vista ieri è destinata a ripetersi almeno fino all’8 dicembre, quando si capirà quali caratteristiche e termini avrà l’attesa proroga del «Qe» in salsa europea. E dicembre è anche è anche il punto d’arrivo del fenomeno di fondo di questi tempi, ovvero quel rafforzamento del dollaro dettato proprio dalla convinzione degli operatori (oltre al 70%) di un rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve nella riunione in programma la settimana successiva.
Che da qui a quell’appuntamento il biglietto verde abbia ulteriore spazio per correre (elezioni Usa permettendo) lo dimostra anche l’andamento delle posizioni rialziste che il mercato ha su di esso. «Queste puntano su un apprezzamento del dollaro già da qualche mese, ma si trovano ancora su livelli piuttosto lontani dai massimi storici», osserva Antonio Cesarano, strategist di Mps Capital Services, l’ufficio studi che al 30 settembre figurava in testa alla classifica mondiale di Bloomberg fra i migliori previsori per l’euro/dollaro.
Paradossalmente l’avanzata trova un potenziale freno nello stesso atteggiamento della Banca centrale di Washington, che potrebbe optare per una politica meno aggressiva (se non da subito nel 2017 ormai in arrivo) proprio per evitare un apprezzamento del cambio eccessivo e quindi dannoso per l’economia Usa. Dall’atteggiamento più o meno accomodante che Francoforte metterà sul tavolo in quegli stessi giorni si capirà se la sostanziale fase di stallo nel braccio di ferro valutario alla quale stiamo assistendo ormai da mesi è destinata a protrarsi anche nl 2017.