Poche certezze e molti «se» nelle politiche di Bce e Fed
Se c’è una cosa che s’è ben intesa ieri, dalla Bce e dalla Fed, è che la prima metà di dicembre si preannuncia calda come non mai. La Banca centrale europea annuncerà l’8 dicembre le nuove linee di politica monetaria per il 2017 e, in particolare, l’estensione del quantitative easing fino all’autunno, mentre quella americana dovrebbe sei giorni dopo prendere la sofferta decisione di alzare di 25 centesimi i tassi d’interesse. Se la giornata di ieri è stata in entrambi i casi avara di novità, soprattutto perché la condizione di attesa assunta dalla Bce era piuttosto scontata, i segnali arrivata da Francoforte e da Washington confermerebbero ancor più le aspettative dei mercati. Con un caveat: perché mentre le intenzioni di Mario Draghi parrebbero più chiare, quelle di Janet Yellen sono tuttora condizionate da una lunga serie di «se».
A parte l’ovvia considerazione di Draghi, che gli stimoli monetari non possono durare in eterno, cosa che per qualche minuto ha messo in agitazione i mercati, è stato l’accenno a un improbabile stop del Qe e a una crescita dell’inflazione tutt’altro che preoccupante a convincere dei mercati, per loro conto già in contemplazione di tempi dilatati nella politica ultraespansiva, che gli acquisti di titoli non si fermerebbero il prossimo marzo. Di questo tenore è l’interpretazione di UniCredit, che stima un Qe esteso fino a settembre o persino a dicembre; dunque per acquisti di altri 480-720 miliardi di euro.
È soprattutto per questa considerazione che il dollaro s’è rafforzato di qualche decimale sull’euro, proprio sulle parole di Draghi. Ma, siccome poco dopo è salito anche contro yen, non devono essere stati estranei i commenti di William Dudley, ovvero l’alter ego della Yellen nel consiglio della Fed: «Se l’economia prosegue sull’attuale traiettoria, penso che vedremo una stretta monetaria a fine anno», ha detto. Il dollaro (sul paniere delle principali valute) è salito ai livelli di febbraio (98,3), il rendimento del Treasury a 2 anni è cresciuto di 2 centesimi e il future sui Fed fund di dicembre, segnalando un rendimento implicito di 51 centesimi, pare scontare 14 dei 25 punti di un possibile aumento dei tassi. Il mercato, si direbbe, sta già anticipando in buona parte la prossima, piccola stretta monetaria.
Ma non la sconta del tutto. Come si intuisce dai discorsi dei vari membri della banca centrale americana e come trapela dalle stesse parole di Dudley, ci sono sempre dei «se»: se l’economia prosegue, precisa il presidente della Fed di New York; o se il dollaro non si rafforza troppo, come fa intendere Robert Kaplan (Fed di Dallas). E, forse, molto dipenderà anche dall’esito delle elezioni presidenziali: perché una vittoria di Hillary Clinton (si dice favorirebbe l’economia e gli investimenti) renderebbe più facile la strada alla Fed. Ma l’affermazione di Donald Trump potrebbe rappresentare una seria minaccia alla ripresa economica.