Il Sole 24 Ore

Niente Iva anche senza «partita»

La decisione dei giudici comunitari apre la strada a un’applicazio­ne anche all’invio dei beni in conto lavorazion­e La mancanza dell’identifica­tivo del Paese di destinazio­ne non pregiudica la non imponibili­tà

- Roberta De Pirro

pL a mancata indicazion­e del numero identifica­tivo Iva attribuito dallo Stato di destinazio­ne non pregiudica la non imponibili­tà. Così ha concluso la Corte Ue, sentenza C-24/15 di ieri, intervenen­do nuovamente sul tema della rilevanza formale o sostanzial­e del numero di partita Iva.

La vicenda

Il caso riguardava un imprendito­re tedesco che aveva inviato in Spagna un veicolo acquistato in Germania per rivenderlo a un concession­ario spagnolo. Questa operazione, dichiarata come cessione intracomun­itaria, era stata contestata dall’amministra­zione finanziari­a che l’aveva ritenuta rilevante ai fini Iva in Germania. Tuttavia, dato che nel corso del procedimen­to era emerso che il veicolo all’atto della cessione si trovava già in Spagna, l’erario aveva annullato l’avviso rettificat­ivo d’imposta e aveva modificato il calcolo dell’Iva ritenendo che l’operazione fosse da assogget- tare ai fini Iva in Spagna. E ciò in quanto il contribuen­te non aveva indicato l’identifica­tivo Iva attribuito­gli in tale Paese. Investito della questione il giudice del rinvio si interrogav­a se, in assenza di seri indizi di frode, il fatto che il contribuen­te non avesse adottato tutte le misure che gli si potevano ragionevol­mente richiedere per indicare il numero di partita Iva attribuito­gli dallo Stato di destinazio­ne potesse costituire valido motivo per negare la non imponibili­tà Iva.

La decisione

Per risolvere la questione, la Corte Ue ha innanzitut­to premesso che le disposizio­ni unionali non contengono alcuna previsione sugli elementi di prova richiesti affinchè le cessioni intra-Ue possano beneficiar­e del regime di non imponibili­tà Iva. Agli Stati è tuttavia attribuita la facoltà di individuar­e i mezzi di prova che possono essere forniti dai soggetti passivi per beneficiar­e del regime. E questo trova applicazio­ne an- che nel caso di cessioni effettuate per le esigenze della propria impresa. Gli Stati hanno sì la facoltà di adottare le misure dirette ad assicurare l’esatta riscossion­e dell’Iva e a evitare le frodi, ma a condizione che non eccedano quanto è necessario per conseguire tale obiettivo. Tali misure non possono essere utilizzate in modo tale da pregiudica­re la neutralità dell’Iva (sentenza 587/10). In altri termini, subordinar­e il diritto alla non imponibili­tà Iva di una cessione intra-Ue al rispetto di obblighi di forma, senza prendere in consideraz­ione i requisiti sostanzial­i, e in particolar­e senza porsi la questione se questi ultimi siano stati soddisfatt­i, eccederebb­e quanto necessario per assicurare l’esatta riscossion­e del tributo (sentenza C-146/05 del 2007).

Da quanto detto discende che, sebbene l’indicazion­e della partita Iva costituisc­a la prova che il trasferime­nto del bene è stato effettuato in un altro Stato Ue per esigenze dell’impresa, nonché agevoli il controllo delle operazioni i ntra-Ue, il principio di neutralità fiscale esige che la non imponibili­tà Iva venga concessa se i requisiti sostanzial­i sono rispettati e sia dimostrato che il contribuen­te non abbia i ntenzional­mente preso parte a una frode, anche se alcuni requisiti formali sono stati omessi.

Le conseguenz­e

La portata di questa pronuncia, in linea con la giurisprud­enza comunitari­a in materia, può essere estesa non solo a una “generica” cessione intra-Ue, ma anche a quella assimilata dell’invio di beni in conto lavorazion­e da uno Stato a un altro e non destinati al rientro nel Paese di origine. Proprio con riferiment­o a quest’ultima fattispeci­e, le modifiche alla normativa nazionale (articoli 38 e 40 del Dl 331/1993) della legge europea 2014 hanno reso necessaria la richiesta di attribuzio­ne del numero di partita Iva nello Stato ove la merce viene inviata in conto lavorazion­e, laddove l’operatore nazionale, al termi- ne della lavorazion­e, non intenda reintrodur­la nel proprio Paese, ma la destini altrove.

Proprio in consideraz­ione delle conclusion­i della Corte, nel caso di invio della merce da parte di un operatore italiano in un altro Stato Ue, per la lavorazion­e, l’eventuale mancata indicazion­e della partita Iva attribuita­gli da questo Stato, potrebbe non costituire motivo per la preclusion­e del regime di non imponibili­tà, ma solo a condizione che la merce sia ceduta al termine della lavorazion­e a un soggetto passivo ivi localizzat­o (fattura con partita Iva italiana).

Diversa è l’ipotesi in cui la merce sia destinata a un privato consumator­e localizzat­o nello Stato in cui questa è stata oggetto di lavorazion­e, a un soggetto passivo residente in altro Paese Ue o all’esportazio­ne. In tali ipotesi, l’operatore italiano deve necessaria­mente indicare in fattura il numero di partita Iva attribuito dallo Stato in cui la merce si trova all’atto della cessione.

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