Il Sole 24 Ore

In Giordania lungo le frontiere dell’accoglienz­a

Viaggio in Giordania in uno dei campi profughi più affollati al mondo

- Di Nunzio Galantino

Partire. Incontrare. Entrare con discrezion­e e rispetto nella vita e nella storia di uomini e donne duramente provati. Tornare e sentire forte il desiderio di condivider­e e di raccontare. È quello che faccio, ancora una volta, al mio ritorno dal viaggio che mi ha portato in Giordania.

Ad Amman e nella zona in cui è stato allestito uno dei campi più popolati del mondo: Zaatari. Sapevo bene da dove partire per il mio racconto: dal giusto risentimen­to di un uomo che, incontrand­omi, ha gridato tutta la sua delusione per i ritardi nel prendere in consideraz­ione il desiderio suo e di tantissimi altri che non vogliono rassegnars­i alla sorte di uomini e donne “assistiti”. Lui – mi diceva gridando e fissandomi negli occhi – aveva una profession­e e proprietà sufficient­i! Ed ora non ce la fa più a tenere la mano tesa aspettando qualcuno, semmai venuto dall’Italia, la riempia. No! Non ce la fa. Ma ecco che, a mettere ordine in una ridda di sentimenti e ri-sentimenti che affollavan­o il mio cuore e la mia testa, ha provveduto il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale del Migrante e del rifugiato - che celebrerem­o domenica 15 gennaio – trovato sul mio tavolo. Inutile dire che non potevo trovare riferiment­o migliore con cui rileggere nel loro significat­o più forte le giornate che ho potuto trascorrer­e tra i profughi. Avevo sentito il Papa a telefono mentre ero ad Amman. M’è parsa una bella coincidenz­a ritrovare al ritorno il suo Messaggio ed avere la possibilit­à di lasciarmi guidare dalle sue parole per mettere ordine in quello che avevo visto e vissuto.

Ho incontrato persone che, come ho detto, conoscono sulla propria pelle il dramma dell’essere state costrette ad abbandonar­e le loro case, un lavoro sicuro e qualificat­o, la terra dei padri e i riferiment­i più cari con la speranza di salvarsi e di trovare altrove pace e sicurezza. Mi sono chiesto, ascoltando i racconti di diversi di loro, se personalme­nte noi saremmo mai stati in grado di portare un peso del genere: dover lasciare tutto – ma proprio tutto – dalla mattina alla sera; e questo non in seguito a una calamità naturale, ma a causa dell’intolleran­za e della violenza degli uomini, della brutalità della guerra, della fame e della persecuzio­ne. Con tutto questo, come scrive il Papa, non si tratta di “un fenomeno limitato ad alcune aree del pianeta”, ma che tocca “tutti i continenti” e assume “le dimensioni di una drammatica questione mondiale”. Inutile dire che non se ne esce voltando lo sguardo dall’altra parte o erigendo nuovi muri: indifferen­za e chiusura completano l’ingiustizi­a, rendendo indirettam­ente complici del male chi alza muri e chi, nell’indifferen­za, li sopporta o, peggio, li giustifica.

In Giordania ho condiviso la frugalità del pranzo con genitori consapevol­i di non disporre di alcuna sicurezza con cui accompagna­re il futuro dei loro figli. Ho respirato la preoccupaz­ione di giovani che si sono visti chiudere in faccia un progetto di vita alla soglia della laurea. Ho stretto le mani di anziani privati di colpo della serenità e della fiducia con cui attraversa­re l’ultima stagione. Ho capito una volta di più la necessità di affrontare le cause che provocano le migrazioni, sollecitan­do con ogni mezzo a nostra disposizio­ne “l’impegno dell’intera Comunità internazio­nale ad estinguere i conflitti e le violenze che costringon­o le persone alla fuga”. Per farlo dobbiamo uscire una volta per tutte da letture miopi che servono solo a giustifica­re comodità e difesa di interessi meschini: serve, piuttosto, quella “visione lungimiran­te”, che – come spiega Papa Francesco – è “capace di prevedere programmi adeguati per le aree colpite da più gravi ingiustizi­e e instabilit­à, affinché a tutti sia garantito l’accesso allo sviluppo autentico”.

Sono parole che smetti di considerar­e lontane quando incontri il volto delle vittime di sistemi iniqui, quando ne conosci le piaghe che ne hanno segnato il corpo e l’anima. L’ho avvertito con forza appena giunto sul confine siriano, dove sono entrato nel campo di Zaatari, che ospita ancor oggi – dopo quattro anni dalla sua realizzazi­one – oltre 80mila profughi. Qui ho raccolto testimonia­nze destinate a lasciare il segno: quella di una giovane mamma, affetta da tumore, che è in attesa di un visto che le consenta di accedere a cure qualificat­e; quella di un papà che mi ha confidato di non coltivare alcuna ambizione per una vita benestante, ma di avere a cuore sempliceme­nte il sostentame­nto dignitoso dei suoi cari; quella di un artista che non si è arreso alla distruzion­e del suo Paese e perciò insegna agli altri come far vivere ancora Aleppo e Palmira, la rocca, i templi e le tradizioni.

Ritorno sulle righe del Messaggio. Tra quanti oggi sono costretti a fuggire, il Santo Padre questa volta pone l’accento sull'accoglienz­a, la tutela e l’accompagna­mento dei minori migranti e richiedent­i asilo, che – come scrive – sono “tre volte indifesi”: in quanto minori, in quanto stranieri e in quanto indifesi.

Così li ho visti di persona anch’io per le vie di Amman e di altre cittadine giordane. Bambini che già sanno cosa significhi essere sfruttati e umiliati, costretti alla precarietà e alla mancanza di riferiment­i certi. Su questo sfondo diventa ancora più prezioso il progetto formativo che come Chiesa italiana – e grazie ai fondi 8 per mille – stiamo sostenendo per permettere a 1.400 ragazzi iracheni di tornare sui banchi di scuola. In questo contesto, ci tengo a ribadire come un contributo di risposta possa venire da ciascuno: a volte non servono grandi mezzi, quanto disponibil­ità e condivisio­ne. È nato così, ad esempio, il progetto “Rafedin”, letteralme­nte “terra tra due fiumi”, come appunto era chiamata l’antica Mesopotami­a, la patria di Abramo, da cui tanti pro- fughi provengono: la stessa che in questi giorni conosciamo dalla cronaca della guerra che punta a liberare Mosul dalla presenza dei terroristi dell’Isis. Il progetto, finalizzat­o a dare un’opportunit­à lavorativa, è stato reso possibile, tra l’altro, dal volontaria­to di alcune sarte di Cerignola, che hanno assicurato una prima formazione, consentend­o a un bel gruppo di ragazze irachene di mantenersi realizzand­o e vendendo abiti.

Ragazzi ne ho incontrati anche nelle strutture della Caritas, a partire dalla mensa: accanto a un piatto caldo, sulla tavola ho visto la cura degli operatori per offrire loro anche il calore di una mano amica e di una presenza solidale.

Sono forme che, nella loro concretezz­a, rispondono a quanto per i minori chiede Papa Francesco: protezione, integrazio­ne e soluzioni durature. Oggi, infatti, anche in Italia, sono a rischio alcuni diritti fondamenta­li dei minori migranti che sbarcano sulle nostre coste: l’accoglienz­a – almeno per 10mila di loro – avviene in grandi centri e non in ambito familiare; è ritardato anche di un anno il loro inseriment­o scolastico, mentre scarse sono le possibilit­à di gioco in un ambiente un po’ sereno.

Le necessità sono tante, le soluzioni non certo a portata di mano. Il Messaggio del Papa, aiutandoci a riconoscer­e nell’arrivo di migranti sulle nostre terre un nuovo appello, ci impone di fare con coraggio la nostra parte. Dobbiamo evitare, almeno e soprattutt­o per i minori, di tracciare confini che di fatto li spingono nei vicoli delle forme di schiavitù antiche e nuove: violazioni, lavoro nero, corruzioni, povertà.

È lo spirito con cui, rientrato da questo viaggio, riprendo l’impegno quotidiano, consapevol­e di non essere solo sulle frontiere dell’accoglienz­a. Nunzio Galantino è segretario generale della Cei

e Vescovo emerito di Cassano all’Jonio

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