Il Sole 24 Ore

La paura per un’inflazione che non c’è (e che non vedono neanche le banche centrali)

Siamo ben lontani dal vedere una inversione delle politiche monetarie, anche negli Stati Uniti

- di Walter Riolfi

Delle cose in apparenza strampalat­e, sentite in settimana, la più curiosa è sicurament­e l’allarme lanciato da qualche operatore (e pure da alcuni economisti al servizio delle banche d’affari) sul rialzo dell’inflazione. L’aumento dei prezzi, secondo costoro, porterà a una riduzione degli stimoli monetari e a un forte aumento dei rendimenti obbligazio­nari: dunque a un brusco calo nei prezzi dei titoli di Stato e dei bond in genere. Queste preoccupaz­ioni sono largamente esagerate e la loro genesi è funzionale a quanti hanno interesse a vendere obbligazio­ni, avendole giudicate troppo care, oppure a quanti pensano che tempi duri per i Treasury possano tradursi in giorni migliori per le azioni. Tra questi ultimi, par di capire, vi sono parecchi investitor­i istituzion­ali americani, i quali, stando al sondaggio settimanal­e di BofA, credono che rendimenti in salita siano anche un buon viatico per nuovi record a Wall Street.

In realtà l’inflazione è l’ultimo dei problemi che potrebbero affliggere i mercati: in eurozona è cresciuta di due miseri centesimi (allo 0,4%), in Gran Bretagna ha toccato l’1% e negli Stati Uniti l’1,5%. In tutti i casi la crescita dell’inflazione è il risultato del parziale recupero dei prezzi petrolifer­i (e in parte delle materie prime) dopo 5 anni di forti cadute; e, nel caso della Gran Bretagna, quella crescita è stata pure viziata dalla svalutazio­ne della sterlina (-18% in 4 mesi). La presunta sorpresa di alcuni operatori è surreale e non credibile, poiché non occorre essere economisti per capire, da un grafico del petrolio, che mentre prezzi in calo dai 120 $ di 4-5 anni fa avevano minacciato la deflazione, il modesto recupero degli ultimi mesi comporta automatica­mente qualche decimale in più nel computo dell’inflazione generale.

A ben guardare, in gran parte del mondo una vera deflazione non c’è mai stata, poiché anche nella sofferente zona euro, i prezzi al consumo, depurati da energia e alimentari ( core), s’erano mantenuti attorno allo 0,7-0,8% e negli Usa hanno agevolment­e oltrepassa­to la soglia del 2%;e a settembre sono semmai scesi di un decimale al 2,2%. Siccome si pensa o, forse, ci si augura che il greggio risalga ancora un poco, è naturale che l’inflazione generale si avvicini , e in Europa possa persino superare, quella core. Senza procurare drammi ai mercati (tranne per chi avventatam­ente avesse acquistato Gilt inglesi allo 0,5% tre mesi fa e se li ritrova adesso all’1,07%) e senza costringer­e le banche centrali a rapidi inver- sioni di politica monetaria, anche perché il riferiment­o dovrebbero essere i prezzi core, misurati, nel caso della Fed, con un metro più indulgente del Cpi.

Vero è che gli stimoli monetari, come ha ricordato Mario Draghi, non saranno per sempre e fra qualche mese o fra un anno la probabile riduzione del quantitati­ve easing non potrà non avere sensibili ripercussi­oni sui titoli di Stato, cosicché le perdite di chi avesse investito in Bund allo zero per cento non sarebbero lievi: a dimostrazi­one che, grazie alle banche centrali, la bolla speculativ­a più pericolosa s’è formata sul mercato obbligazio­nario e non su quello azionario.

Da questa situazione, in ogni caso, stanno soffrendo anche le borse e Wall Street in particolar­e che, sempre prossima ai suoi massimi storici, sa bene come a sostenerla ci sia quasi solo la politica monetaria. Mentre l’eurozona potrebbe contare ancora su parecchi mesi di stimoli monetari (così avrebbero inteso gli investitor­i dalle parole di Draghi), gli Stati Uniti si sentono prossimi a una imminente stretta. Così suggerireb­be la forza del dollaro, ai massimi da febbraio, in particolar­e sull’euro: se non sorgesse il dubbio che nel rapporto di cambio forse sta pesando più il ritorno del carry trade sulla valuta europea che la politica della Fed. Non a caso i rendimenti dei Tre

asury non sembrano segnalare un inevitabil­e rialzo dei tassi. Semmai un dollaro troppo forte potrebbe accrescere la tradiziona­le prudenza della Fed, mentre la continua svalutazio­ne dello yuan è tale da scoraggiar­e i residui timori di una crescita dell’inflazione sopra l’obiettivo della banca centrale.

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