Italia-Europa, un copione con due sfide
Il contrasto tra il governo italiano e la Commissione europea sui saldi di bilancio segue un copione poco convincente. Inizialmente, Roma voleva scrivere nel documento di finanza pubblica un rapporto deficit/Pil del 2,4%, contro il 2,1% sollecitato da Bruxelles. Le parti si sono poi avvicinate nei numeri, mentre inasprivano molto i toni: il governo propone ora il 2,3 contro il 2,2 richiesto dalla Commissione. Una distanza di solo 1,6 miliardi di euro. Non può essere questo minimo divario a giustificare l’affermazione secondo cui l’alternativa alle richieste italiane è un’Europa xenofoba. La ragione dell’inasprimento paradossale dei toni è che lo scontro con Bruxelles funge ormai da cardine della disputa di politica economica del Paese, risolta la quale resta poco altro su cui discutere.
Ma non è così: che ci sia o no un compromesso con Bruxelles sul livello del deficit, restano tutti i problemi italiani di bassa crescita e di alto debito. Questo sistema di governance economica - nazionale ed europea – sta diventando un alibi che finisce per radicare la divergenza tra le economie europee e che va modificato.
Il contrasto nasce da problemi oggettivi che le due parti si imputano vicendevolmente: da un lato c'è la scarsa capacità di crescita dell'economia italiana che suscita la tentazione di aumentare ogni anno la spesa pubblica considerando passeggere le conseguenze sul debito; dall'altro ci sono le regole europee che disciplinano il bilancio e che non sono rispettate perché poco chiare e razionali.
Il primo problema, la bassa crescita economica italiana, è causato soprattutto dal basso livello degli investimenti. Il fatto che l'occupazione migliori marginalmente rispetto alla crescita fa risaltare il basso livello della produttività. Ma se l'inflazione è vicina a zero in tutta Europa e la produttività è bassa, non c'è modo di recuperare competitività e incentivare gli investimenti. La crescita resta così modesta che il governo cerca di rinforzarla con un po' di spesa pubblica. Infatti, il previsto aumento della crescita dallo 0,6% tendenziale all'1% non si giustifica se non stimando, con i consueti moltiplicatori fiscali, gli effetti di un disavanzo che balza dall'1,6% tendenziale al 2,4%.
Il governo ritiene che proprio le condizioni di debolezza dell'economia giustifichino una richiesta di “flessibilità”, cioè di maggior deficit, che dovrebbe essere autorizzata dalla Commissione. Lo scorso anno, Roma aveva già beneficiato di una flessibilità pari allo 0,75% del pil (più un ulteriore 0,1%) sulla base di tre condizioni: che il governo realizzasse riforme strutturali (intese ad aumentare la produttività e quindi la crescita potenziale del paese); che le maggiori spese corrispondessero a un aumento degli investimenti (per le stesse ragioni); e infine che quest'anno i saldi strutturali di finanza pubblica tornassero ad avvicinarsi al percorso dell'Omt: l'obiettivo di medio ter- mine del deficit strutturale che costituisce il perno del Patto di stabilità.
Si tratta di condizioni che hanno una logica di principio molto chiara, ma che è difficile verificare nei fatti: quale impatto sulla produttività stanno davvero avendo le riforme del lavoro e della pubblica amministrazione? Gli investimenti sono stati quelli giusti, o hanno riguardato beni fungibili, poco adatti ad aumentare strutturalmente la produzione? Gli effetti sulla crescita e sul pil non sono così evidenti da poter rispondere che le riforme e i nuovi investimenti hanno cambiato il profilo dell'economia italiana. Ancor più chiaro è il mancato rispetto della terza condizione e cioè di una politica di bilancio che quest'anno garantisca una riduzione del deficit strutturale. A occhi europei, dunque, sembra che il governo italiano si stia preoccupando più di spingere la produzione attraverso la spesa pubblica, che di aumentare la crescita potenziale.
Se così fosse, il cittadino italiano potrebbe affidarsi al giudizio di Bruxelles. Purtroppo, tuttavia, da parte europea manca un'analisi convincente delle origini della bassa crescita dell'economia italiana, genericamente attribuita a una carenza di riforme. Inoltre le regole europee non sono così chiare da risolvere i dubbi, né per quanto riguarda le condi- zioni eccezionali che giustificano la “flessibilità”, né per quanto riguarda il deficit strutturale.
In base ai criteri attuali, le spese eccezionali in materia di immigrazione e di catastrofi naturali non giustificano un aumento della spesa dal 2% al 2,4%, ma probabilmente equivalgono a solo uno 0,1%. La ragione è che nei calcoli europei si può tener conto solo delle spese aggiuntive rispetto agli anni precedenti, non del livello di partenza. In effetti, a differenza di altri paesi, l'Italia negli anni passati era già incorsa in spese molto elevate per l'accoglienza dei migranti. Sarebbe quindi sensato tener conto di una condizione di partenza molto onerosa. Il problema si ripresenta in modo diverso con le spese per il terremoto: le spese aggiuntive sono solo quelle dell'emergenza del sisma di due mesi fa, ma la messa in sicurezza del territorio è un problema rilevante e specifico di un paese molto esposto a rischi tellurici. I problemi con il buon senso delle richieste italiane nascono quando i maggiori margini di spesa, liberati dal non computo delle spese per migranti o terremoti, vengono riempiti da altre spese, tipo il ponte di Messina, che vengono poi classificate come investimenti e autorizzano ulteriore deficit, in una spirale senza fine.
La scarsa chiarezza si ripropone nel calcolo del deficit strutturale a base del quale è necessaria una stima dell'output gap (la differenza tra reddito potenziale e reddito corrente), uno strumento fondamentale per legare le politiche economiche di breve termine con quelle di medio e lungo termine, nel contesto della stima della funzione di produzione. Su richiesta di alcuni ministri delle Finanze, il Consiglio Ue sta valutando diverse metodologie di calcolo dell'output gap. Infatti, se si considera un orizzonte di tempo diverso (due anni o quattro anni, per esempio) cambia la differenza del reddito corrente da quello di riferimento e, se il gap è maggiore, avvicinandosi a quattro punti di pil, giustifica un deficit strutturale più ampio. È stato istituito un comitato tecnico che sembra orientato a mantenere la metodologia attuale, ma introducendo un “test di plausibilità” che ha già prodotto, con il consenso tedesco, la valutazione benevola dei disavanzi di Spagna e Portogallo.
È evidente che siamo di fronte ad argomentazioni molto sofisticate, tali da apparire astratte al cittadino che ne vive invece l'aspetto più concreto: le difficoltà economiche o l'onere delle tasse. Deve quindi preoccupare, ma non sorprendere, che la retorica politica dei governi si stia tanto distanziando dal linguaggio tecnico a cui deve ricorrere la Commissione europea. Ma la contrapposizione retorica tra le “sofferenze dei migranti” e i “decimali dei burocrati”, nasconde purtroppo un ordine di problemi che un governo dovrebbe riconoscere: aiuti all'immigrazione e finanza pubblica non sarebbero affatto in contraddizione tra loro se l'economia crescesse, creando posti di lavoro e riducendo il debito.
Il caso italiano infatti è più complesso degli altri a causa dell'andamento non positivo del rapporto tra debito e pil. È possibile che, indipendentemente dall'approvazione della legge di bilancio, il giudizio europeo sull'Italia diventerà infatti più intransigente quando si tornerà ad aprire il dossier sulle violazioni del criterio di convergenza del rapporto debito/pil. Prima di arrivare a quel punto sarebbe utile proporre a Bruxelles di procedere a una valutazione condivisa sul problema degli investimenti e della qualità della spesa.