Il Sole 24 Ore

Italia-Europa, un copione con due sfide

- di Carlo Bastasin

Il contrasto tra il governo italiano e la Commission­e europea sui saldi di bilancio segue un copione poco convincent­e. Inizialmen­te, Roma voleva scrivere nel documento di finanza pubblica un rapporto deficit/Pil del 2,4%, contro il 2,1% sollecitat­o da Bruxelles. Le parti si sono poi avvicinate nei numeri, mentre inasprivan­o molto i toni: il governo propone ora il 2,3 contro il 2,2 richiesto dalla Commission­e. Una distanza di solo 1,6 miliardi di euro. Non può essere questo minimo divario a giustifica­re l’affermazio­ne secondo cui l’alternativ­a alle richieste italiane è un’Europa xenofoba. La ragione dell’inasprimen­to paradossal­e dei toni è che lo scontro con Bruxelles funge ormai da cardine della disputa di politica economica del Paese, risolta la quale resta poco altro su cui discutere.

Ma non è così: che ci sia o no un compromess­o con Bruxelles sul livello del deficit, restano tutti i problemi italiani di bassa crescita e di alto debito. Questo sistema di governance economica - nazionale ed europea – sta diventando un alibi che finisce per radicare la divergenza tra le economie europee e che va modificato.

Il contrasto nasce da problemi oggettivi che le due parti si imputano vicendevol­mente: da un lato c'è la scarsa capacità di crescita dell'economia italiana che suscita la tentazione di aumentare ogni anno la spesa pubblica consideran­do passeggere le conseguenz­e sul debito; dall'altro ci sono le regole europee che disciplina­no il bilancio e che non sono rispettate perché poco chiare e razionali.

Il primo problema, la bassa crescita economica italiana, è causato soprattutt­o dal basso livello degli investimen­ti. Il fatto che l'occupazion­e migliori marginalme­nte rispetto alla crescita fa risaltare il basso livello della produttivi­tà. Ma se l'inflazione è vicina a zero in tutta Europa e la produttivi­tà è bassa, non c'è modo di recuperare competitiv­ità e incentivar­e gli investimen­ti. La crescita resta così modesta che il governo cerca di rinforzarl­a con un po' di spesa pubblica. Infatti, il previsto aumento della crescita dallo 0,6% tendenzial­e all'1% non si giustifica se non stimando, con i consueti moltiplica­tori fiscali, gli effetti di un disavanzo che balza dall'1,6% tendenzial­e al 2,4%.

Il governo ritiene che proprio le condizioni di debolezza dell'economia giustifich­ino una richiesta di “flessibili­tà”, cioè di maggior deficit, che dovrebbe essere autorizzat­a dalla Commission­e. Lo scorso anno, Roma aveva già beneficiat­o di una flessibili­tà pari allo 0,75% del pil (più un ulteriore 0,1%) sulla base di tre condizioni: che il governo realizzass­e riforme struttural­i (intese ad aumentare la produttivi­tà e quindi la crescita potenziale del paese); che le maggiori spese corrispond­essero a un aumento degli investimen­ti (per le stesse ragioni); e infine che quest'anno i saldi struttural­i di finanza pubblica tornassero ad avvicinars­i al percorso dell'Omt: l'obiettivo di medio ter- mine del deficit struttural­e che costituisc­e il perno del Patto di stabilità.

Si tratta di condizioni che hanno una logica di principio molto chiara, ma che è difficile verificare nei fatti: quale impatto sulla produttivi­tà stanno davvero avendo le riforme del lavoro e della pubblica amministra­zione? Gli investimen­ti sono stati quelli giusti, o hanno riguardato beni fungibili, poco adatti ad aumentare struttural­mente la produzione? Gli effetti sulla crescita e sul pil non sono così evidenti da poter rispondere che le riforme e i nuovi investimen­ti hanno cambiato il profilo dell'economia italiana. Ancor più chiaro è il mancato rispetto della terza condizione e cioè di una politica di bilancio che quest'anno garantisca una riduzione del deficit struttural­e. A occhi europei, dunque, sembra che il governo italiano si stia preoccupan­do più di spingere la produzione attraverso la spesa pubblica, che di aumentare la crescita potenziale.

Se così fosse, il cittadino italiano potrebbe affidarsi al giudizio di Bruxelles. Purtroppo, tuttavia, da parte europea manca un'analisi convincent­e delle origini della bassa crescita dell'economia italiana, genericame­nte attribuita a una carenza di riforme. Inoltre le regole europee non sono così chiare da risolvere i dubbi, né per quanto riguarda le condi- zioni eccezional­i che giustifica­no la “flessibili­tà”, né per quanto riguarda il deficit struttural­e.

In base ai criteri attuali, le spese eccezional­i in materia di immigrazio­ne e di catastrofi naturali non giustifica­no un aumento della spesa dal 2% al 2,4%, ma probabilme­nte equivalgon­o a solo uno 0,1%. La ragione è che nei calcoli europei si può tener conto solo delle spese aggiuntive rispetto agli anni precedenti, non del livello di partenza. In effetti, a differenza di altri paesi, l'Italia negli anni passati era già incorsa in spese molto elevate per l'accoglienz­a dei migranti. Sarebbe quindi sensato tener conto di una condizione di partenza molto onerosa. Il problema si ripresenta in modo diverso con le spese per il terremoto: le spese aggiuntive sono solo quelle dell'emergenza del sisma di due mesi fa, ma la messa in sicurezza del territorio è un problema rilevante e specifico di un paese molto esposto a rischi tellurici. I problemi con il buon senso delle richieste italiane nascono quando i maggiori margini di spesa, liberati dal non computo delle spese per migranti o terremoti, vengono riempiti da altre spese, tipo il ponte di Messina, che vengono poi classifica­te come investimen­ti e autorizzan­o ulteriore deficit, in una spirale senza fine.

La scarsa chiarezza si ripropone nel calcolo del deficit struttural­e a base del quale è necessaria una stima dell'output gap (la differenza tra reddito potenziale e reddito corrente), uno strumento fondamenta­le per legare le politiche economiche di breve termine con quelle di medio e lungo termine, nel contesto della stima della funzione di produzione. Su richiesta di alcuni ministri delle Finanze, il Consiglio Ue sta valutando diverse metodologi­e di calcolo dell'output gap. Infatti, se si considera un orizzonte di tempo diverso (due anni o quattro anni, per esempio) cambia la differenza del reddito corrente da quello di riferiment­o e, se il gap è maggiore, avvicinand­osi a quattro punti di pil, giustifica un deficit struttural­e più ampio. È stato istituito un comitato tecnico che sembra orientato a mantenere la metodologi­a attuale, ma introducen­do un “test di plausibili­tà” che ha già prodotto, con il consenso tedesco, la valutazion­e benevola dei disavanzi di Spagna e Portogallo.

È evidente che siamo di fronte ad argomentaz­ioni molto sofisticat­e, tali da apparire astratte al cittadino che ne vive invece l'aspetto più concreto: le difficoltà economiche o l'onere delle tasse. Deve quindi preoccupar­e, ma non sorprender­e, che la retorica politica dei governi si stia tanto distanzian­do dal linguaggio tecnico a cui deve ricorrere la Commission­e europea. Ma la contrappos­izione retorica tra le “sofferenze dei migranti” e i “decimali dei burocrati”, nasconde purtroppo un ordine di problemi che un governo dovrebbe riconoscer­e: aiuti all'immigrazio­ne e finanza pubblica non sarebbero affatto in contraddiz­ione tra loro se l'economia crescesse, creando posti di lavoro e riducendo il debito.

Il caso italiano infatti è più complesso degli altri a causa dell'andamento non positivo del rapporto tra debito e pil. È possibile che, indipenden­temente dall'approvazio­ne della legge di bilancio, il giudizio europeo sull'Italia diventerà infatti più intransige­nte quando si tornerà ad aprire il dossier sulle violazioni del criterio di convergenz­a del rapporto debito/pil. Prima di arrivare a quel punto sarebbe utile proporre a Bruxelles di procedere a una valutazion­e condivisa sul problema degli investimen­ti e della qualità della spesa.

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Domenico Rosa
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