Fare impresa, Italia al 50° posto
Migliora la performance ma perde sei posizioni nella graduatoria
L’Italia perde posizioni nella capacità di fare impresa. Nella speciale classifica denominata “Doing Business 2017”, una ricerca comparata, una sorta di “Bibbia” degli investitori internazionali in cerca di opportunità ed elaborata ogni anno dalla Banca Mondiale a Washington, l’Italia vede crescere il suo punteggio, salendo a 72,25, dal 72,07 della classifica 2016 e dal 68,48 del 2015. Nonostante il forte miglioramento però, l’Italia perde posizioni nella classifica generale, piazzandosi quest’anno al 50° posto rispetto alla 44esima posizione ottenuta nel 2016. In pratica, nel rapporto dell’anno scorso il ranking dell’Italia era 45esimo ma la metodologia nello stilare il rapporto dagli economisti della World Bank è cambiata. Quindi i due dati non sono direttamente comparabili, fanno sapere alla Banca Mondiale. Usando la metodologia di quest’anno, l’anno scorso l’Italia sarebbe stata 44esima. Nel 2015 era 56esima.
Il problema di fondo su cui misusarsi è la velocità del cambiamento: gli altri partner, in un mondo globalizzato e concorrenziale, corrono di più e fanno più riforme pro-business: così, ad esempio, la Francia, Paese simile per dimensione e popolazione, che era al 28° posto scende al 29°, ma sostanzialmente regge, mentre la Germania, altro Paese a cui rapportarci tra quelli Ocse, che era al 14° scende al 17° posto in classifica, ma resta comunque vicina al plotone di testa guidato dalla Nuova Zelanda. Anche i cugini spagnoli ci battono, passando dal 33° posto al 32° posto in classifica.
L’Italia ha migliorato le sue regole per il business come evidenziano gli indicatori del report “Doing Business” in termini assoluti - il punteggio per l’Ita- lia è infatti passato da 71,97 del 2016 a 72,25 del 2017, utilizzando una metodologia simile - così il Belpaese sta riducendo il divario con la frontiera normativa globale. Ad esempio, Doing Business constata che l’Italia ha fatto pagare le tasse in modo più semplice, consentendo la deducibilità piena del costo del lavoro rispetto all’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), come pure sono stati aggiornati i coefficienti utilizzati per il calcolo delle imposte sugli immobili (Imu) e la tassa comunale sui servizi (Tasi) nel 2015/16. Inoltre, il sistema elettronico per la preparazione e il pagamento delle imposte sul lavoro è stata migliorata. Il motivo principale alla base di una posizione più bassa in classifica, tuttavia, è che altre economie hanno attuato più riforme che ven- gono misurate dal “Doing Business” che in Italia nel corso dell’ultimo anno.
Nel Doing business - un report che si avvale di questionari ad esperti sull’impatto delle normative sull’attività di impresa - il nostro Paese ottiene un punteggio complessivo di 72,25 (su 100) dai 71,97 del rapporto 2016, restando identici su tre indicatori, guadagnando posizioni su 3 e scendendo in altri quattro.
Cala innanzitutto leggermente il nostro punteggio nelle procedure per aprire un’azienda dove siamo al 63° posto (eravamo 50esimi): pesa in questo caso il leggero aumento dei giorni necessari per avviare un’impresa che aumentano a 6,5 dai 5,5 dell’anno precedente. In ogni caso il “punteggio” raggiunto è di 89,40 a riprova che la distan- za dai migliori della classifica è stata ridotta. Peggioriamo anche sul fronte dell’accesso al credito dove scendiamo al 101° posto (dal 97°), così come nella tutela degli investitori di minoranza dove dal 36° posto si passa al 42°. Restano identiche le nostre prestazioni nella richiesta dei permessi per costruire (86° posto) con gli stessi giorni necessari per ottenerli (227,5 giorni). Così come i tempi e le procedure per ottenere un all’allaccio elettrico (scendiamo al 51° posto dal 59°) o per registrare un atto di proprietà (24° posto).
È problematica, anche se con qualche progresso, la valutazione sul nostro sistema tributario che resta in fondo, al 126° posto contro il 137° del 2016 con un punteggio di 61,65. La motivazione? Il numero comunque eccessivo di pagamenti (14 dai 15 dell’anno prima), il tempo necessario (240 ore l’anno contro le 269 ore dell’anno precedente) e l’aliquota totale come percentuale dei profitti (calata di poco a 62,0% dai 64,8% nel 2016 e dai 65,4% calcolati dal report 2015).
Alcuni economisti accusano la metodologia usata dalla Banca Mondiale di privilegiare troppo le riforme sul fronte dell’offerta rispetto a quelle sulla fronte della domanda. Altri istituti come il World economic forum, ad esempio, puntano, per verificare la competitività di un’economia più sull’efficacia e la diffusione delle infrastrutture, sulla digitalizzazione delle manifatture e della Pubblica amnistrazione in generale rispetto ai “lacci e lacciuli” che frenano l’economia. Ma sono punti di vista teorici: agli investitori internazionali piacciono sempre le comparazioni e “Doing business” resta un punto di riferimento per molti di loro. Ai governi spetta l’onere di tenerne conto.