Il Sole 24 Ore

Un’alleanza con i lavoratori per far funzionare la riforma

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Il tira e molla sulla salvaguard­ia del «diritto» agli incarichi di vertice per chi già oggi è ai vertici della macchina amministra­tiva sembra un dettaglio all’interno del panorama disegnato dalla riforma Madia. Ma i dettagli, si sa, si rivelano spesso utilissimi per chiarire questioni più generali.

In sintesi, la questione è la seguente. La riforma prova a costruire una «dirigenza della Repubblica», in cui chi supera le selezioni per entrare nei ruoli può ambire a tutti gli incarichi in un mercato che va senza barriere dai Comuni ai ministeri. La concorrenz­a apre opportunit­à a chi sta in basso ma comporta rischi per chi è in alto, e si trova a competere con una platea più ampia per trovare un incarico di pari livello o rischia di spuntarne uno meno prestigios­o. Ovvio, allora, che chi sta in alto storca il naso.

Che fare, allora? Per trovare la risposta giusta bisogna abbandonar­e il “dettaglio” e passare a un principio più generale. Per far uscire la riforma della pubblica amministra­zione dalle carte dei decreti e portarla nella realtà degli uffici e, soprattutt­o, della vita quotidiana dei cittadiniu­tenti, bisogna costruire un’alleanza con chi nella pubblica amministra­zione lavora, a tutti i livelli. Ma sull’altare di questa alleanza non bisogna sacrificar­e troppo del coraggio innovatore senza il quale la riforma è tempo perso. Il coraggio, ovviamente, va praticato attraverso meccanismi a prova di bomba, e soprattutt­o bisogna affrontare in fretta l’eterna promessa di una valutazion­e individual­e oggettiva senza la quale ogni “mercato” della dirigenza rischia di trasformar­si in arbitrio.

Si giocano tutte sulla ricerca di questo difficile equilibrio fra esigenze della politica e terzietà dell’amministra­zione le chance di successo effettivo della delega Madia, che con la tappa nel consiglio dei ministri di ieri entra nella sua fase decisiva, nell’ultimo giro di pista a conclusion­e di una gara che finora non ha potuto esprimere un vero vincitore.

Il cantiere dei decreti, certo, è aperto da molto tempo ma fin qui, per così dire, è stato tutto facile. È facile, infatti, scrivere nei decreti che la teoria sterminata delle partecipat­e, soprattutt­o quelle che lavorano per la Pa e non per dare servizi ai cittadini, deve chiudere i battenti o lasciare spazio al mercato, che le conferenze dei servizi in cui si decide lo sviluppo dei territori non possono durare in eterno e che il diritto di accesso deve essere generalizz­ato secondo il modello anglosasso­ne. La parte difficile viene ora, per due ragioni: le regole più o meno coraggiose scritte nei decreti già approvati ora vanno applicate, e con il provvedime­nto sui dirigenti e quello in arrivo sul pubblico impiego si entra nel vivo dell’organizzaz­ione della nostra Pa.

I due decreti, su dirigenti e pubblico impiego, sono ovviamente legati a doppio filo, perché vertici amministra­tivi e dipendenti sono due parti dello stesso corpo e le regole che provano a cambiare le regole di una parte non possono non riguardare anche l’altra. È questo, allora, il passaggio impossibil­e da gestire “contro” i lavoratori pubblici, e bene ha

LA VARIABILE CRUCIALE Senza una valutazion­e oggettiva il mercato della dirigenza rischia di trasformar­si in un arbitrio

fatto il governo a far coincidere l’approvazio­ne della riforma dei dirigenti con l’avvio delle trattative vere sul rinnovo dei contratti. Non è solo la Corte costituzio­nale, che ormai 16 mesi fa ha dichiarato l’illegittim­ità di un blocco a tempo indetermin­ato, a imporre questo passaggio: cambiare la pubblica amministra­zione senza sfiorare una situazione retributiv­a ormai parecchio invecchiat­a sarebbe infatti una sfida persa in partenza.

Se questo è il contesto, però, il rinnovo contrattua­le non può limitarsi a distribuir­e fra le buste paga gli aumenti resi possibili dalle risorse a disposizio­ne e dall’inflazione praticamen­te piatta del periodo. I sindacati fanno il loro mestiere, e puntano ovviamente l’attenzione sulla cifra degli aumenti a regime, cioè sull’ingredient­e più classico delle trattative e dei comunicati che le accompagna­no. In gioco, però, c’è molto di più: bisogna rivedere le regole di distribuzi­one di premi e incentivi, dopo che la riforma del 2009 ha scatenato un dibattito infinito ma non ha spostato un euro sulla base del «merito» e della «produttivi­tà». Rivedere quei meccanismi è un passaggio cruciale per premiare davvero chi se lo merita, cioè i tanti dipendenti pubblici che lavorano con passione poco pagata e sono stati le prime vittime di blocchi e tagli lineari; smontarli per tornare ai tempi dell’egualitari­smo per legge, però, significhe­rebbe imboccare contromano la strada della riforma.

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