Sermonti, la Commedia e un incanto che continua
Chissà quanti milanesi in queste ore, alla notizia della morte di Vittorio Sermonti, si sono ricordati di una scena sempre uguale: il suo ingresso in Santa Maria delle Grazie, tutte le sere alle nove in punto. Uno sguardo alla chiesa stipata, il tempo di sistemare i fogli sui leggii, di abbassare le luci, e subito si iniziava. Protagonista Dante, naturalmente. Un canto della Commedia a sera, secondo la formula che si era inventato: prima tre quarti d’ora di racconto (diceva così, non spiegazione, che suggeriva accademia e noia), poi la lettura delle terzine.
L’avevo visto tante volte, nelle molte città dove - con la Telecom che organizzava quelle serate - lo avevamo portato in giro come il globetrotter di un nuovo modo di fare cultura, serissimo eppure pop, così distante dai modelli tradizionali. Eppure, ogni volta mi colpiva il legame magnetico che invariabilmente si stabiliva con il pubblico. Pochi secondi, e l’intera chiesa pulsava solo di un’unica vibrazione che partiva dal leggio per trasmettersi alle panche. «Quando sono lì - diceva Sermonti - parlo a ogni singolo spettatore, uno per uno».
Contribuiva, certo, l’atmosfera. La cupola del Bramante, pur se pessima per l’acustica, rendeva l’ambiente unico. Anche per quello i milanesi erano accorsi a frotte fin dalla prima sera. Il sagrato era gremito già una mezz’ora prima dell’inizio. «Non avete aperto le porte?», ho chiesto ai miei collaboratori al mio arrivo. «Già fatto. Non ci sta più uno spillo». Era vero: c’era gente seduta perfino nei confessionali. Alla fine, delle 2.500 persone, più di metà aveva dovuto rinunciare. Così, dal giorno successivo avevamo attrezzato anche la piazza con altoparlanti e sedie; chi passava di lì coglieva quella visione surreale di centinaia di persone sedute dovunque che ascoltavano senza vedere. Nessuno fiatava: tutti avevano orecchie solo per il Dante di Sermonti.
Il successo era tanto più anomalo se si pensa che Sermonti non era un professore, ma un letterato abbastanza appartato, con alle spalle variegate esperienze che più volte si erano tramutate in libri, diversi, inclassificabili, spesso geniali. La sua frequentazione di Dante era stata esclusivamente privata, per il piacere di leggerlo, penetrarlo e comprenderlo. Fino a che un giorno la seconda moglie Lulli non gli aveva suggerito l’idea: «Ma tu spieghi e reciti la Commedia in maniera superba; fallo anche per gli altri». L’uomo, tutt’altro che modesto, aveva avuto un raro guizzo di umiltà: «Solo se mi approva il più grande dantista di tutti, Gianfranco Contini». Ci era andato: il severissimo filologo lo aveva ascoltato e incoraggiato, con un’indicazione tassativa: «Deve stupirmi e farmi ridere almeno una volta a canto». Non occorreva altro per un uomo dotato di un’ironia quasi anglosassone. Così quelle letture erano divenute il caso culturale di una stagione. Perché Sermonti aveva la rara capacità di raccontare anche le cose più difficili. Mentre lo faceva, gli spettatori potevano letteralmente vedere nell’aria le scene che si delineavano, come dipinte da un pittore; e quando, dopo tre quarti d’ora, seguiva la lettura, tutto pareva improvvisamente chiaro, di evidenza solare.
Con l’età, quelle occasioni si erano diradate. Ma oggi sono certo che in tutte le città dove Sermonti è stato, ci sono migliaia di persone che ripensano con gratitudine a lui e al suo racconto dantesco, che spesso ha permesso loro di riconciliarsi con la Commedia, quel poema che magari la scuola aveva fatto un po’ odiare.