Raffreddore a Parigi polmonite a Bruxelles
Gli Stati Uniti e l’Europa stanno attraversando processi di cambiamento simili, tuttavia diverse sono le loro conseguenze istituzionali. Vale la pena di capire perché. Cominciamo dai processi di cambiamento. Il voto in Usa e Regno Unito ha mostrato che entrambi i Paesi sono spaccati come una mela.
Quelle elezioni hanno prodotto chiari vincitori, ma non chiare maggioranze. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha vinto sì 306 dei 538 voti dei grandi elettori. Nello stesso tempo, però, ha avuto quasi 2 milioni di voti popolari in meno della sua rivale Hillary Clinton. Sarebbe stato sufficiente che quest’ultima avesse preso 20-35 mila voti in più in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania per conquistare anche la maggioranza dei voti elettorali. In termini di voti popolari, poco meno della metà degli elettori (62.337.643, corrispondenti al 46,3 per cento dei votanti) ha votato per riportare a casa la sovranità economica e poco più della metà degli elettori (64.433.399, corrispondenti al 47.93% dei votanti) ha votato per continuare a condividerla con altri (il resto dei votanti ha sostenuto candidati di piccoli partiti). Dunque, Donald Trump ha vinto, ma si può dire che ha con sé una maggioranza popolare? Lo stesso discorso vale per l’esito del referendum tenutosi nel Regno Unito lo scorso 23 giugno sulla permanenza o meno del paese nell'Unione Europea (Ue). È vero che quel referendum fu vinto da Nigel Farage, leader del partito indipendentista e promotore della Brexit. I favorevoli al ritorno a casa della sovranità nazionale ottennero infatti il 51,9 per cento dei voti (corrispondente a 17.410.742 votanti mentre i contrari furono 16.141.241).
Tuttavia, il 62 per cento degli scozzesi, il 55,7 per cento degli irlandesi del nord e il 60 per cento dei londinesi votarono invece per mantenere il paese aperto verso l’Europa.È probabile che questo stesso pattern si ripeterà nelle elezioni presidenziali austriache del prossimo 4 dicembre, convocate per rimediare agli errori regolamentari commessi nelle elezioni del 22 maggio scorso.
In queste ultime, infatti, il candidato favorevole ad un’Austria aperta e integrata in Europa, Alexander Van der Bellen, vinse di strettissima misura contro il candidato anti-europeista e xenofobo, Norbert Hofer (50.3% contro il 49.7%). Anche questo piccolo paese sembra essere spaccato come una mela. Lo stesso discorso vale per altri paesi europei. Probabilmente anche per l’Italia che emergerà dal referendum del 4 dicembre, dove in gioco c'è la scelta tra una riforma costituzionale che rafforza il nostro paese in Europa ed uno status quo che ci allontana sempre di più da quest’ultima. Qualcuno (Renzi o Grillo) vincerà, ma è plausibile ipotizzare che il paese risulterà diviso più o meno a metà. Come si vede, elezioni diverse (politiche in alcuni casi, referendarie in altri casi), con una posta in gioco diversa, consegnano un messaggio simile. Sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno società spaccate a metà su una linea di frattura che oppone chi vuole riportare a casa la sovranità e chi vuole invece condividerla con altri che stanno fuori di casa. Il nazionalismo (economico, politico, culturale e talora anche religioso) è divenuto l’alternativa all’apertura dei mercati e della politica, così come quest’ultima si é istituzionalizzata nell’ultimo mezzo secolo.
Ma se simili sono, negli Stati Uniti e in Europa, le divisioni, diverse sono invece le loro conseguenze istituzionali. Negli Stati Uniti, la volontà della metà della popolazione contraria all’apertura è stata incanalata all’interno del sistema politi- co, sia a livello del centro federale che a livello degli stati federati. Oltre al controllo della presidenza, della Camera e del Senato, i nazionalisti economici hanno incrementato il loro controllo pure dei governi statali. L’8 novembre, infatti, si sono tenute anche le elezioni di 44 legislativi e di 12 governatorati dei 50 stati della federazione. Con quelle elezioni, i repubblicani hanno acquisito il pieno controllo di 26 stati, i democratici solamente di 6,e i rimanenti 18 stati hanno un governo diviso (diversa maggioranza politica tra il legislativo e il governatorato), ma con i repubblicani molto più organizzati dei democratici. L’insoddisfazione verso la politica dell’apertura ha portato a nuove maggioranze politiche, a Washington D.C e nelle singole capitali degli stati, ma non ad una messa in discussione del sistema federale in quanto tale. La separazione netta tra le competenze statali e quelle del centro federale ha consentito di disaggregare i cambiamenti elettorali ai vari livelli del sistema di governo. In Europa, invece, le elezioni politiche o referendarie hanno sollevato una frattura che è andata direttamente al cuore della Ue. I nazionalisti degli stati europei hanno messo in discussione l’esistenza stessa della Ue, rivendicando il rimpatrio delle principali competenze trasferite negli anni a quest’ultima. Così, in Europa, la critica alla politica dell’apertura ha assunto un carattere antieuropeista, mentre non è diventata antifederalista la stessa critica nell’altra sponda dell’Atlantico.
Perché questa differenza? La risposta risiede nei modelli di governance. Negli Stati Uniti i cambiamenti elettorali nei singoli stati non influenzano il funzionamento dell’Unione, nella Ue avviene invece il contrario. Da noi sarà sufficiente che vinca il No nel referendum italiano del 4 dicembre per mettere in discussione la stabilità dell’Eurozona. Oppure sarà sufficiente la vittoria di Marine Le Pen nel secondo turno delle presidenziali francesi del prossimo 7 maggio per mettere in discussione la stessa sopravvivenza della Ue. La triplice elezione (1963,