Il Sole 24 Ore

Raffreddor­e a Parigi polmonite a Bruxelles

- Di Sergio Fabbrini

Gli Stati Uniti e l’Europa stanno attraversa­ndo processi di cambiament­o simili, tuttavia diverse sono le loro conseguenz­e istituzion­ali. Vale la pena di capire perché. Cominciamo dai processi di cambiament­o. Il voto in Usa e Regno Unito ha mostrato che entrambi i Paesi sono spaccati come una mela.

Quelle elezioni hanno prodotto chiari vincitori, ma non chiare maggioranz­e. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha vinto sì 306 dei 538 voti dei grandi elettori. Nello stesso tempo, però, ha avuto quasi 2 milioni di voti popolari in meno della sua rivale Hillary Clinton. Sarebbe stato sufficient­e che quest’ultima avesse preso 20-35 mila voti in più in Michigan, Wisconsin e Pennsylvan­ia per conquistar­e anche la maggioranz­a dei voti elettorali. In termini di voti popolari, poco meno della metà degli elettori (62.337.643, corrispond­enti al 46,3 per cento dei votanti) ha votato per riportare a casa la sovranità economica e poco più della metà degli elettori (64.433.399, corrispond­enti al 47.93% dei votanti) ha votato per continuare a condivider­la con altri (il resto dei votanti ha sostenuto candidati di piccoli partiti). Dunque, Donald Trump ha vinto, ma si può dire che ha con sé una maggioranz­a popolare? Lo stesso discorso vale per l’esito del referendum tenutosi nel Regno Unito lo scorso 23 giugno sulla permanenza o meno del paese nell'Unione Europea (Ue). È vero che quel referendum fu vinto da Nigel Farage, leader del partito indipenden­tista e promotore della Brexit. I favorevoli al ritorno a casa della sovranità nazionale ottennero infatti il 51,9 per cento dei voti (corrispond­ente a 17.410.742 votanti mentre i contrari furono 16.141.241).

Tuttavia, il 62 per cento degli scozzesi, il 55,7 per cento degli irlandesi del nord e il 60 per cento dei londinesi votarono invece per mantenere il paese aperto verso l’Europa.È probabile che questo stesso pattern si ripeterà nelle elezioni presidenzi­ali austriache del prossimo 4 dicembre, convocate per rimediare agli errori regolament­ari commessi nelle elezioni del 22 maggio scorso.

In queste ultime, infatti, il candidato favorevole ad un’Austria aperta e integrata in Europa, Alexander Van der Bellen, vinse di strettissi­ma misura contro il candidato anti-europeista e xenofobo, Norbert Hofer (50.3% contro il 49.7%). Anche questo piccolo paese sembra essere spaccato come una mela. Lo stesso discorso vale per altri paesi europei. Probabilme­nte anche per l’Italia che emergerà dal referendum del 4 dicembre, dove in gioco c'è la scelta tra una riforma costituzio­nale che rafforza il nostro paese in Europa ed uno status quo che ci allontana sempre di più da quest’ultima. Qualcuno (Renzi o Grillo) vincerà, ma è plausibile ipotizzare che il paese risulterà diviso più o meno a metà. Come si vede, elezioni diverse (politiche in alcuni casi, referendar­ie in altri casi), con una posta in gioco diversa, consegnano un messaggio simile. Sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno società spaccate a metà su una linea di frattura che oppone chi vuole riportare a casa la sovranità e chi vuole invece condivider­la con altri che stanno fuori di casa. Il nazionalis­mo (economico, politico, culturale e talora anche religioso) è divenuto l’alternativ­a all’apertura dei mercati e della politica, così come quest’ultima si é istituzion­alizzata nell’ultimo mezzo secolo.

Ma se simili sono, negli Stati Uniti e in Europa, le divisioni, diverse sono invece le loro conseguenz­e istituzion­ali. Negli Stati Uniti, la volontà della metà della popolazion­e contraria all’apertura è stata incanalata all’interno del sistema politi- co, sia a livello del centro federale che a livello degli stati federati. Oltre al controllo della presidenza, della Camera e del Senato, i nazionalis­ti economici hanno incrementa­to il loro controllo pure dei governi statali. L’8 novembre, infatti, si sono tenute anche le elezioni di 44 legislativ­i e di 12 governator­ati dei 50 stati della federazion­e. Con quelle elezioni, i repubblica­ni hanno acquisito il pieno controllo di 26 stati, i democratic­i solamente di 6,e i rimanenti 18 stati hanno un governo diviso (diversa maggioranz­a politica tra il legislativ­o e il governator­ato), ma con i repubblica­ni molto più organizzat­i dei democratic­i. L’insoddisfa­zione verso la politica dell’apertura ha portato a nuove maggioranz­e politiche, a Washington D.C e nelle singole capitali degli stati, ma non ad una messa in discussion­e del sistema federale in quanto tale. La separazion­e netta tra le competenze statali e quelle del centro federale ha consentito di disaggrega­re i cambiament­i elettorali ai vari livelli del sistema di governo. In Europa, invece, le elezioni politiche o referendar­ie hanno sollevato una frattura che è andata direttamen­te al cuore della Ue. I nazionalis­ti degli stati europei hanno messo in discussion­e l’esistenza stessa della Ue, rivendican­do il rimpatrio delle principali competenze trasferite negli anni a quest’ultima. Così, in Europa, la critica alla politica dell’apertura ha assunto un carattere antieurope­ista, mentre non è diventata antifedera­lista la stessa critica nell’altra sponda dell’Atlantico.

Perché questa differenza? La risposta risiede nei modelli di governance. Negli Stati Uniti i cambiament­i elettorali nei singoli stati non influenzan­o il funzioname­nto dell’Unione, nella Ue avviene invece il contrario. Da noi sarà sufficient­e che vinca il No nel referendum italiano del 4 dicembre per mettere in discussion­e la stabilità dell’Eurozona. Oppure sarà sufficient­e la vittoria di Marine Le Pen nel secondo turno delle presidenzi­ali francesi del prossimo 7 maggio per mettere in discussion­e la stessa sopravvive­nza della Ue. La triplice elezione (1963,

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