UN’EREDITÀ CONTROVERSA
È morto Fidel Castro e con lui forse muore, ancora una volta, Che Guevara che della rivoluzione cubana e dei grandi rivolgimenti segnati dal comunismo è rimasto il simbolo più popolare, consegnato tra le icone della storia da una fine eroica. L’eredità di Castro è più controversa e assai meno romantica di quella del Che.
Una foto che mi regalò vent’anni fa Raul Corrales, il fotografo della rivoluzione, mostra l’immagine di Castro che cavalca impugnando il fucile. Al Museo di Santa Clara dedicato al Che, dove nel 1959 si svolse la battaglia contro la dittatura di Batista, sono in mostra schioppi che sembrano armi giocattolo e un’esile mitragliatrice che impallidiscono e quasi commuovono davanti alle armi letali delle guerriglie odierne del Medio Oriente.
È passata un’era geologica da quando Castro entrò trionfalmente all’Avana l’8 gennaio 1959 in piedi su una jeep: 32 anni, un metro e novanta, miope, una lunga barba e la divisa militare verde oliva. Un liberatore che sarebbe diventato un dittatore, più presentabile di altri ma pur sempre un autocrate, a volte spietato. L’impatto dei “barbudos” fu immenso e Castro fece di Cuba l’epicentro della guerra fredda. La crisi della Baia dei Porci nel 1962, quando gli americani scoprirono le rampe sovietiche per missili nucleari, portò per 13 giorni il mondo sull’orlo della guerra nucleare.
Ma quando Obama nel marzo scorso è stato ricevuto sull’isola, arrivavano in contemporanea all’Avana le immagini degli attentati jihadisti di Bruxelles: mezzo secolo di storia si consumava in poche ore e la riconciliazione tra Cuba e il potente vicino non cambiava nulla a livello globale. La guerra fredda era finita ed è rinata semmai nei massacri di Siria e Iraq, mentre si sono esaurite le guerriglie che spingevano gli americani a sostenere regimi non meno dittatoriali di quello castrista. Cuba era il souvenir di un mondo scomparso.
«Non vogliamo regali dall’impero americano», disse Fidel ma il fratello Raul e i suoi generali per evitare il crack economico oggi devono cercarsi un nuovo sponsor, come lo fu prima l’Urss e poi il Venezuela di Hugo Chavez. La rivoluzione invece è stata sepolta da un pezzo con un regime basato sulla religione del Capo, solo interprete autentico della verità, e un nazionalismo esasperato che dava grande risalto ai successi e occultava i fallimenti.
La sua fluviale attività oratoria, incomprensibile se vista da fuori, aveva esattamente questo obiettivo: presentarsi come l’unico referente delle masse e legittimare la repressione. Quasi nessuno dei suoi compagni di strada è sopravvissuto alle purghe. Il suo era un fondamentalismo dove ogni cubano doveva sottomettersi alla guida, come un musulmano ad Allah. Ma il suo carisma era così potente che riusciva a mettere in secondo piano il benessere della popolazione come criterio di giudizio esclusivo del regime. Nessuno può raccoglierne davvero l’eredità: i cubani devono sperare in una transizione morbida.
La sua fine sembra porre una domanda: dove eravamo rimasti? Con la scomparsa di Castro viaggiamo ancora sulla coda di un secolo dove il passato è morto e non si vede ancora il futuro. Il ’900 continua in Medio Oriente, in un bagno di sangue che sta polverizzando l’eredità degli stati postcoloniali. Non è archiviato nei Balcani e a Est, dove non si sono ancora regolati tutti i conti della seconda guerra mondiale. Prosegue qui in Europa con il risorgere dei fantasmi del ’900. È l’agonia di un secolo lungo di cui Castro fu uno dei grandi protagonisti.