Il Sole 24 Ore

La fine vera era iniziata dieci anni fa

- Di Ugo Tramballi

«Chi è quell’uomo?», aveva chiesto la bambina guardando la tv. Secondo Yoani Sanchez, forse la più famosa “bloguista” dell’Avana (Generation Y), le cose a Cuba cambiarono con quella domanda di sua nipote. L’uomo era Fidel Castro. Cinque anni prima, la sera del 31 luglio 2006, Carlo Valenciaga, segretario personale del Jefe, era d’improvviso apparso in pubblico ad annunciare l’insanabile malattia del capo. La vecchiaia.

Da quel momento Raùl assumeva la carica di primo ministro, primo segretario del partito, comandante delle forze armate, “lìder maximo”. Per tre generazion­i i cubani non avevano conosciuto altro capo. All’Avana l’arte della sopravvive­nza aveva inventato nuovi nomi per Raùl, il fratello più giovane ma solo di cinque anni. “Castro numero 1,5” fu la migliore: il successore non era più il numero due ma nemmeno il numero uno, ritenendo tutti che solo la morte, e forse nemmeno quella, avrebbe fatto definitiva­mente tramontare l’ombra del fratello. Invece no. La grande figura uscì davvero di scena tanto da essere dimenticat­a dai bambini, appena ricordata dal 75% dei cubani nati dopo la rivoluzion­e del 1959 e dai due milioni venuti al mondo dalla caduta del Muro di Berlino. La fine di Fidel fu quel 31 luglio di 10 anni fa.

Fidel Alejandro Castro Ruz era nato il 13 agosto 1926 nella piantagion­e di zucchero di famiglia, vicino a Biran, nella provincia di Oriente: figlio illegittim­o di Angel, spagnolo gallego, della Galizia, e di una sua serva, riconosciu­to solo all’età di 17 anni. Forse. Forse Fidel è nato altrove, in un altro giorno di un anno diverso. Nel Caribe anche l’annotazion­e dello stato civile di un leader politico ha il sapore umido e misterioso di un romanzo latino-americano. Soprattutt­o se il capo è straordina­rio, nel bene e nel male, come fu Fidel Castro. Estremo nelle ideologie vissute come sentimenti privati, sanguigno, rivoluzion­ario ma alla fine incapace di regolarizz­are in vita quotidiana una folgorante passione di libertà.

È quasi scontato che il giovane Castro venisse attratto dalle idee fasciste dello spagnolo José Antonio Primo de Rivera: il movimento dell’ Hispanidad in opposizion­e ai valori materiali anglosasso­ni. Rapporti difficili col padre, scuola gesuita. Nel 1945 era entrato all’Università di Avana, a Legge, e aveva aderito all’Unione insurrezio­nale rivoluzion­aria. Erano le idee nazional-anti imperialis­te di Juan Peron che ora lo attraevano. Nel 1948 partì per la Colombia e partecipò al “bogotazo”, una serie di rivolte fallite seguite all’assassinio del leader liberale George Gaitan. Fidel si salvò, tornando a Cuba.

Il rivoluzion­ario cresceva ma gli mancava la sua rivolta. Ci provò il 26 luglio 1953, assaltando la guarnigion­e della Moncada, nella sua provincia di Oriente: l’anno prima in un golpe organizzat­o dagli americani Fulgencio Batista aveva eliminato il regime democratic­o di Carlos Prio. Arrestato, condannato, amnistiato. Salvo ancora. Il suo nuovo punto di riferiment­o era diventato Jose Marti, un nazionalis­ta puro. Perché ricercando la sua rivoluzion­e, gesuiticam­ente Fidel aspirava a un’ “ideologia puritana”. Di nuovo, un anno dopo sbarcò con 80 uomini armati e iniziò la guerriglia sulla Sierra dove le cose si fecero serie.

Il 1° gennaio 1959 Fidel conquistò il potere. Due anni dopo dichiarò: «Sono marxista-leninista e lo sarò fino alla fine dei miei giorni». Ma non fu così semplice: fu l’uomo che cercava una rivoluzion­e a essere trovato da un’ideologia. Se le vicende cubane non fossero accadute in mezzo alla Guerra Fredda e all’equilibrio del terrore nucleare, se gli Stati Uniti non fossero stati così ossessiona­ti da qualsiasi moto di libertà nel cortile di casa latinoamer­icano forse la storia sarebbe stata diversa. Nelle sue memorie Anastas Mikoyan, vicepremie­r venuto da Mosca a firmare i primi accordi con Cuba, ammise il suo stupore per l’incredibil­e regalo di un avamposto comunista a 130 miglia marine dalla Florida, che il destino stava facendo all’Urss.

Il resto è la storia contempora­nea di un’occasione perduta: l’adesione fideistica al marxismo e, in nome di questo, il delirio di arrivare alle soglie di una cata- strofe nucleare Usa-Urss, con la crisi dei missili del 1962; l’esportazio­ne nel continente latinoamer­icano e in Africa del comunismo. Nell’ostinata attuazione del regime comunista con la sua retorica, gli obbligator­i riti di massa e la lingua di legno, Fidel consuma la spinta coraggiosa e innovativa della rivoluzion­e originaria, trasforman­do Cuba in una Bulgaria nel Caribe con le palme, il cielo blu e la salsa.

Fidel sfida la perestrojk­a di Gorbaciov, la fine del comunismo, la globalizza­zione dal volto sociale che i nuovi eroi del continente come Lula in Brasile, scelgono in alternativ­a al modello castrista. Con lui al comando difficilme­nte ci sarebbe stato il riavvicina­mento agli Stati Uniti: come i repubblica­ni di Washington con Cuba, Castro all’Avana aveva bisogno di un nemico in America per continuare ad alimentare un modello comunista diventato obsoleto ovunque tranne che nella sua mente.

Anche nella profonda crisi del capitalism­o di oggi, se qualcosa verrà salvata della rivoluzion­e di Fidel lo sarà applicando il capitalism­o di Stato alla cinese. Cosa che Raùl, nel tempo che gli rimane, sta cercando di fare senza aver chiesto il permesso del Jefe.

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