Il Sole 24 Ore

Governo e Parlamento, quanto pesa l’incognita della legge elettorale

- di Roberto D’Alimonte

Per il presidente del consiglio riforma elettorale e riforma costituzio­nale sono due cose separate. Da un certo punto di vista è così. Se la riforma costituzio­nale verrà approvata il 4 dicembre le innovazion­i introdotte potranno funzionare indipenden­temente dal metodo di elezione dei deputati. Il bicamerali­smo differenzi­ato può coesistere sia con un sistema di voto proporzion­ale che con uno maggiorita­rio. Questo vale a maggior ragione per gli altri elementi della riforma costituzio­nale: dal nuovo sistema di relazioni tra stato e regioni al rafforzame­nto degli strumenti di democrazia diretta. Se vincerà il Sì tutto questo sarà acquisito sia che l’Italicum resti come è, sia che si passi a altro sistema elettorale.

Tutto questo è vero. Ma è anche vero che gli effetti della riforma costituzio­nale sul funzioname­nto del parlamento e sull’efficacia della azione di governo saranno significat­ivamente diversi a seconda che i futuri governi siano più o meno stabili, più o meno coesi. E questo non dipende dalla riforma costituzio­nale, ma da quella elettorale. Il che non vuol dire che sono i sistemi elettorali a fare tutta la differenza. Cultura politica, forza dei partiti, qualità della classe politica, regolament­i parlamenta­ri sono solo alcuni degli altri fattori che contano in termini di governabil­ità. Ma il sistema elettorale è la chiave.

Italicum e riforma costituzio­nale sono stati pensati per completare un percorso iniziato nel 1993. Nel pieno della crisi della Prima Repubblica il parlamento approvò una legge che introdusse un nuovo modello di governo nei comuni (e nelle province). Gli elementi centrali erano, e sono, l’elezione diretta del sindaco insieme ad un sistema elettorale proporzion­ale con premio di maggioranz­a e ballottagg­io che, salvo casi eccezional­i, garantisco­no al vincente la maggioranz­a assoluta dei seggi in consiglio. Inoltre è prevista la clausola per cui il sindaco può essere sfiduciato dal consiglio comunale, nel qual caso si torna a votare. Lo stesso modello più tardi fu introdotto, senza il ballottagg­io, a livello regionale.

Questo modello del tutto originale ha garantito la stabilità dei governi sub-nazionali in un contesto difficile, caratteriz­zato da elevata frammentaz­ione, bassissima fiducia e grande debolezza dei partiti. Oggi comuni e regioni hanno governi che, salvo poche eccezioni, durano cinque anni. Ai tempi della Prima Repubblica duravano meno di uno. Ed è un modello che agli italiani piace senza ombra di dubbio. A questo proposito nell’ultimo sondaggio CiseSole24­Ore pubblicato su queste pagine qualche settimana fa c’era questa domanda: “Il sistema elettorale dovrebbe permettere agli elettori di scegliere direttamen­te il presidente del consiglio come avviene per i sindaci”. Ebbene, l’81% degli intervista­ti si è dichiarato d’accordo. E dentro questo 81% il 46% ha risposto addirittur­a di essere molto d’accordo. C’è qualcuno sano di mente che pensa che si possa tornare al passato? Che si possa rinunciare di questi tempi alla stabilità degli organi di governo comunali e regionali in nome di una maggiore rappresent­atività?

Se Renzi avesse potuto, avrebbe introdotto il modello del sindaco anche a livello nazionale, completand­o così il percorso iniziato nel 1993. Glielo ha impedito la resistenza diffusa all’idea della elezione diretta del presidente del consiglio. Così, l’Italicum è diventa- to lo strumento con cui si è adattato il modello del sindaco al governo nazionale. E Il ballottagg­io è il meccanismo con cui si è introdotta l’elezione “diretta” del premier senza modificare la forma di governo che resta parlamenta­re. Checché ne dicano Zagrebelsk­y e altri proporzion­alisti incalliti. Con il ballottagg­io si dà ai cittadini – con un secondo voto - la responsabi­lità di scegliere il governo del paese. Un governo scelto dalla maggioranz­a assoluta dei votanti.

L’Italicum è un tassello. L’altro è la riforma costituzio­nale. Uno dei suoi obiettivi è quello di dare a chi è stato scelto dai cittadini per guidare il paese qualche strumento in più per governare meglio, assumendos­ene in modo chiaro la responsabi­lità. Governi più stabili, più efficienti e più responsabi­li. E un parlamento comunque rappresent­ativo. In sintesi, più accountabi­lity e meno alibi. La costituzio­ne del 1947 ha frammentat­o il potere per paura di un governo forte. La revisione costituzio­nale del 2016 tende a concentrar­lo un pochino di più senza cambiare formalment­e le prerogativ­e del premier, ma rafforzand­o il potere degli elettori. E senza toccare minimament­e tutti i contrappes­i presenti attualment­e nella costituzio­ne. Dalla assoluta indipenden­za della magistratu­ra, ai poteri della Consulta e del presidente della repubblica.

Tutto ciò però fa paura. Un governo eletto “direttamen­te” dai cittadini grazie al ballottagg­io, una sola camera che approva la maggior parte delle leggi, una corsia preferenzi­ale per deliberare in 70 giorni sui disegni di legge prioritari del governo rappresent­ano quel temutissim­o “combinato disposto” considerat­o una grave minaccia alla democrazia. Sono tutte cose che esistono in molte altre democrazie europee, ma da noi sono visti come i tasselli di una deriva autoritari­a che per qualcuno ci riporterà addirittur­a indietro al fascismo. Siamo arrivati a sentir affermare che un governo stabile rappresent­a una minaccia. Che il governo debole è sinonimo di democrazia. Che le elezioni non servono a scegliere un governo ma solo a fotografar­e le preferenze degli elettori. Che la democrazia è rappresent­anza. Punto. Gran Bretagna, Francia - paesi i cui governi vengono eletti regolarmen­te da minoranze di elettori - sarebbero sistemi poco democratic­i. La Gran Bretagna!

A questo punto siamo arrivati. In realtà si dovrebbe dire che non ci siamo mai spostati da una concezione kelseniana della democrazia per cui l’unica forma legittima di governo parlamenta­re è quella proporzion­ale. Una concezione che alligna soprattutt­o nel mondo dei nostri giuristi. In ogni caso i critici del “combinato disposto” possono stare tranquilli. Che vinca il Sì o che vinca il No il sistema elettorale è destinato a cambiare. Se vincerà il No sarà una necessità. Se vincerà il Sì sarà una scelta. O forse no. Potrebbe infatti decidere la Consulta e il ballottagg­io potrebbe essere la sua prossima vittima. È ormai un fatto che le leggi elettorali in Italia non le fa il parlamento, ma le fanno i giudici. Si vedrà a gennaio.

LE RIPERCUSSI­ONI Riforme formalment­e separate, ma gli effetti di quella costituzio­nale dipenderan­no anche dalla stabilità dell’Esecutivo

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