Il Sole 24 Ore

Ricorsi velleitari, si perde tempo si spreca denaro

- Di Enrico De Mita

Le questioni di manifesta inammissib­ilità sono quelle sollevate senza fornire alla Corte la benchè minima piattaform­a di giudizio per entrare nel merito della questione. La dottrina fa rilevare che nel giudizio di manifesta inammissib­ilità la Corte esprime nel suo magistero una specie di biasimo al giudice remittente. Le questioni dichiarate manifestam­ente inammissib­ili entrano tutte nell’elenco che la Corte ha indicato come questioni da non sollevare. Fra queste entrano le questioni che investono l’intero provvedime­nto legislativ­o senza individuar­e le norme la cui presenza nell’ordinament­o determiner­ebbe la lesione della Costituzio­ne. Questo tipo di questioni sono molto diffuse fra quelle sollevate dalle commission­i tributarie. Il risultato non è tanto la decisione di manifesta inammissib­ilità ma il tempo e il denaro persi.

È stata dichiarata manifestan­te inammissib­ilità la questione sollevata dalla Commission­e provincial­e di Reggio Emilia (213 settembre 2014, Gu prima serie speciale 2016, n. 43) relativa all’ordinament­o e alla organizzaz­ione delle Commission­i tributarie.

La questione è stata ritenuta dalla Corte (227/2016) indetermin­ata e ambigua e di conseguenz­a, secondo la costante giurisprud­enza costituzio­nale inammissib­ile.

L’ordinanza di rimessione ha investito l’intero ordinament­o e organizzaz­ione della giustizia tributaria, ritenendol­i incompatib­ili con la garanzia di indipenden­za anche apparente dei giudici, come richiesto dalla giurisprud­enza della Cedu. Tali questioni sono: disponibil­ità dei mezzi necessari della giurisdizi­one tributaria affidata alla stessa amministra­zione cui appartengo­no le autorità che emettono gli atti di imposizion­e, anziché al giudice tributario; la gestione dei mezzi materiali per l’esercizio della giurisdizi­one tributaria alla stessa autorità che emette gli atti impositivi; la mancanza di autonomia di gestione finanziari­a e contabile delle commission­i tributarie; inadeguate­zza dei compensi spettanti ai giudici; il divieto fatto ai giudici di astenersi per difetto di apparenza causato da ragioni ordinament­ali, al fine di evitare decisioni nulle per vizio di costituzio­ne del giudice; l’attribuzio­ne in via esclusiva al ministero delle Finanze della gestione amministra­tiva-contabile degli stanziamen­ti alla giustizia tributaria e dei capitoli di spesa delle commission­i tributarie; l’assetto organizzat­ivo analogo a quello già censurato dalla Corte Cedu per violazione dell’articolo 6, 1) paragrafo. Le norme censurate sarebbero gli articoli 2,15,31,32,33,34 e 35 del Dlgs n. 545/1992. Le norme costituzio­nali violate sarebbero gli articoli 100,101 e 117 in relazione al parametro introdotto dell’articolo 1 della Cedu.

Un’altra ragione di inammissib­ilità deriva dal fatto che il giudice a quo «ha chiesto alla Corte plurimi interventi creativi, caratteriz­zati da un grado di manipolati­vità tanto da investire, non singole questioni o il congiunto operare di esse, ma un intero sistema di norme, come quello che disciplina le attribuzio­ni dei giudici tributari e del personale delle segreterie, non che il sistema organizzat­ivo delle risorse umane e materiali della giustizia tributaria ovvero il sistema che regola il trattament­o retributiv­o del giudice». Ora, dice la Corte, in linea di principi gli interventi manipolati­vi di sistema sono estranei alla giustizia tributaria poiché eccedono i poteri di intervento della Corte implicando scelte affidate alla discrezion­alità del legislator­e. Insomma l’ordinanza è una censura politica al processo tributario. Sul piano tecnico le censure investono in modo indifferen­ziato le disposizio­ni che prevedono la composizio­ne degli organi giurisdizi­onali del contenzios­o, la vigilanza sui giudici, e le relative sanzioni disciplina­ri, sia tutte le disposizio­ni che regolano gli uffici di segreteria delle commission­i tributarie «senza indicare specificam­ente i termini nei quali ciascuna di esse violerebbe i parametri invocati». Le questioni sono genericame­nte poste «in difetto di qualsiasi argomento che consenta di collegare le singole norme evocate ai precedenti parametri». In conclusion­e la costante giurisprud­enza costituzio­nale, l’eterogenei­tà degli oggetti della norma censurata e la carenza di una reciproca e intima connession­e tra essi non consente di introdurre validament­e un giudizio di legittimit­à costituzio­nale e determina la (manifesta) inammissib­ilità della questione. È stato dichiarato altresì inammissib­ile l’intervento dell’Associazio­ne magistrati tributari.

La manifesta inammissib­ilità delle questioni di costituzio­nalità è diventata un problema. La colpa è anche dei profession­isti che consideran­o tali questioni come l’ennesima impugnazio­ne. So che non c’è nulla da fare se non la conoscenza del diritto tributario costituzio­nale.

Speriamo che se ne tenga conto nella riforma del contenzios­o tributario con riguardo alla preparazio­ne profession­ale dei giudici.

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