Il Sole 24 Ore

L a v i t a s p e z z a t a d i Er b i l

Da un lato l’apparenza di una città che continua ad andare avanti ma si interroga sul futuro , dall’altro i campi profughi: è la guerra

- Di Maurizio Ambrosini

Il giorno prima di partire per Erbil (Kurdistan iracheno, Nord dell’Iraq), un amico mi ha domandato se ci andavo con un volo militare. Parecchi altri nei giorni precedenti mi avevano chiesto se c’erano collegamen­ti aerei regolari e quali avventuros­e rotte avrei seguito. Nessun volo militare, e nessuno strano attraversa­mento dei cieli. A Erbil si arriva ogni giorno con voli di linea, passando per Vienna, Istanbul, Stoccolma o altri aeroporti europei di transito. È vero che il volo era semivuoto, e all’arrivo scopriamo che buona parte dei passeggeri, quasi tutti uomini, erano attesi da militari in divisa. L’aeroporto è moderno e all’apparenza più grande di Linate, anche se non proprio animatissi­mo. Forse non si può pretendere di più, a 80 chilometri da Mosul, dal fronte della battaglia più annunciata, più attesa e forse più importante degli ultimi anni, da quando si è materializ­zata la minaccia dell’Isis in Medio Oriente e in Europa. Viaggiando verso il centro della capitale del Kurdistan ira- cheno, una città da 1,5 milioni di abitanti ma molto più estesa di Milano, si incontrano parecchi palazzi in costruzion­e, con tanto di gru, ma all’apparenza abbandonat­i. Dopo un decennio di tumultuoso sviluppo, tra la caduta di Saddam Hussein e la nascita dell’Isis, gli eventi bellici, il crollo del prezzo del petrolio e i dissidi con lo Stato centrale hanno messo in ginocchio l’economia del Kurdistan iracheno. Sfilano parecchi alberghi piuttosto pretenzios­i, ma non abbiamo l’impression­e che siano gremiti di ospiti. Erbil voleva diventare la nuova Dubai, per il 2014 era stata designata capitale del turismo arabo, e sperava di attirare sulle sue montagne un flusso turistico provenient­e dalle torride pianure irachene e magari anche da più lontano. Poi all’improvviso lo scenario è cambiato: l’Isis al culmine della sua offensiva è arrivato a 10 chilometri dalla città ed è stato respinto a fatica.

Ma è venerdì, giorno di festa. A smentire l’idea di una malinconic­a città di retrovia, schiacciat­a sotto l’incubo di attentati e ritorsioni, provvede la visita a un centro commercial­e. È pieno di gente, soprattutt­o famiglie con i bambini che passano qui il pomeriggio festivo. Si fanno i selfie sulle scale d’ingresso. All’entrata ci attendono guardie armate, il metal detector e una blanda perquisizi­one. Ma è l’unico segno di una guerra in corso, insieme a una bussola per la raccolta di offerte per i peshmerga piazzata alle casse. All’interno si trova di tutto, compresi i negozi di grandi marche dell’elettronic­a come Samsung o del lusso come Mont Blanc. Al supermerca­to (Carrefour), insieme a montagne di merce di ogni tipo, con un sussulto di orgoglio nazional-popolare ecco la Nutella e il caffè Lavazza, il grana padano e il provolone. Un po’ cari, è vero, ma probabilme­nte sono arrivati via terra attraversa­ndo la Turchia.

| A un’ora di strada da Erbil ci sono i campi dei profughi in fuga dall’Isis: vi sono insediate circa 24mila persone, la metà delle quali sono minori

I prezzi in generale non sono bassi, la rendita petrolifer­a ha alimentato un esteso impiego pubblico e diffuso bene o male un certo benessere. L’apparente impression­e di ordine è rafforzata dal fatto che gli sfollati in cerca di elemosina per le strade sono stati scacciati con le maniere spicce, e la povertà delle aree rurali è tenuta a bada dal divieto di entrare in città senza permesso di residenza. Le strade sono molto trafficate, con un parco auto recente e di gamma medio-alta. Oltre a strade e centri commercial­i, sono affollati pure i ristoranti. Una visione che stride con l’immagine di una città in guerra. Mi chiedo se gli allegri convitati non abbiano figli, fratelli o amici al fronte, o feriti in ospedale, anche perché qui si racconta che le perdite siano assai più alte di quelle ufficialme­nte ammesse. Ma chi conosce il luogo mi risponde che la vita reclama i suoi diritti. La gente non sa che cosa le riserva il futuro, cerca di vivere il presente con tutto ciò che può offrire. Chi ha trent’anni e arriva da Baghdad ha già dovuto sopportare sette guerre, qui poco meno, ma in questa fase la città finora è stata relativame­nte sicura. Andare a fare acquisti, uscire la sera, cenare al ristorante, esprimono un grande desiderio di serenità e di pace. Se si vuole, sono una terapia antidepres­siva.

L’altra Erbil è assai meno visibile, e di fatto è insediata in gran parte fuori città. Per raggiunger­e i campi profughi di Debaga occorre più di un’ora in auto, accompagna­ti e muniti di permessi. Qui i profughi sono persone che nel gergo del soccorso umanitario sono definite Ido (Internal Displaced People), ossia sfollati interni, in fuga dall’Isis o da altre minacce: neppure le milizie sciite da queste parti godono di buona stampa. Attorno a quello che era un piccolo villaggio si sono ammassate circa 24mila persone, accolte in quattro campi di varia qualità (le ultime stime delle persone in fuga da Mosul parlano di 60mila profughi in varie direzioni). Circa la metà sono minori: ci accolgono stuoli di bambini, seguiti da Terre des Hommes Italia con attività di animazione, sostegno alle situazioni di fragilità, lotta contro il lavoro minorile e i matrimoni precoci.

Gli sfollati sono stati riuniti qui, lontano da Erbil e impediti di raggiunger­la, con l’obiettivo di indurli a tornare a casa. All’inizio Onu e Ong internazio­nali non volevano farsene carico, per non avallare questa politica. Poi i rifugiati sono rimasti precariame­nte accampati, la Mezzaluna Rossa degli Emirati ha installato delle casette e si è imposto il fatto compiuto. Ora il flusso è continuo, in entrata e in uscita: vediamo gente in coda per essere accolta e pullman che riportano a casa chi è stato talmente prostrato dall’esperienza della vita da profugo da accettare di tornare indietro. Non sanno che le loro case probabilme­nte sono state distrutte o minate. Nei casi migliori, si troveranno a vivere in mezzo al nulla, senza un tessuto civile ed economico in grado di sostenerli.

Si capisce poi a colpo d’occhio che anche tra i profughi ci sono gerarchie, trattament­i diversi, persone dimenticat­e e cortocircu­iti burocratic­i. Diversa è la condizione di chi ha potuto raggiunger­e Erbil e magari cercare un lavoro, e chi invece è rimasto bloccato in luoghi come questo. Diversa è la condizione dell’emergenza, che dovrebbe durare tre settimane, con un bagno ogni 40 persone, ricovero in tende o in strutture collettive, dalla condizione “regolare” che almeno sulla carta prevede un bagno ogni 20 persone e forse una casetta. Nei fatti poi l’emergenza può durare molto più a lungo, e la fase successiva vedere ancora l’accoglienz­a sotto una tenda. Quanto alla casette, inizialmen­te unifamilia­ri e dotate di servizi, ora accolgono tre o quattro famiglie ciascuna. E le famiglie qui hanno in media quattro figli ognuna.

In lontananza il cielo è scuro. Non è il vento del deserto, ma il petrolio che l’Isis brucia per frenare l’avanzata dell’eterogenea coalizione che dovrebbe scacciarlo da Mosul. Forse quello che abbiamo visto è appena l’inizio di una catastrofe umanitaria annunciata.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy