Il Sole 24 Ore

L’ultimo Caffè

L’economista Bruno Amoroso, allievo e amico di Federico Caffè, rivela nelle ultime righe delle sue «Memorie di un intruso» di averlo frequentat­o dopo la scomparsa: anni di meditazion­e, ritirato in convento

- di Roberto Da Rin © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongo­no il mosaico della scomparsa di Federico Caffè. Esce di casa, in via Cadlolo, a Roma, all’alba del 15 aprile 1987. Lascia sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento. Sono queste le ipotesi su cui si orientano le indagini della polizia, degli investigat­ori, dei suoi amici, dei suoi studenti. Indagini di anni. Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro.

Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazio­nale, docente a La Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzion­alisti, un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrappos­to al darwinismo schumpeter­iano». Parole sue.

Un economista affascinat­o dall’approccio interdisci­plinare della scuola nordica, di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformaz­ione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivo­luzione liberista.

Gli allievi ne parlano così: le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratur­a, la storia, la musica. La sua umanità come aspetto centrale, qualcosa di spiritualm­ente indefinibi­le che sprigionav­a dalla sua persona. Capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare.

Tra gli allievi, Bruno Amoroso è l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè. Amoroso vive e insegna in Danimarca da 40 anni, sbarcato in Scandinavi­a con il proposito di approfondi­re gli studi sui sistemi di Welfare e sulla loro esportabil­ità. Aveva in tasca le lettere di presentazi­one di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi.

In un bellissimo libro, Memorie di un intruso, edito da Castelvecc­hi, Amoroso racconta tutto della sua vita e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè. Pur con le lettere di presentazi­one di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca e cerca un lavoro: lo trova come “assistente lavapiatti”. È laureato e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di Politica economica della Sapienza, ma inizia dal basso. Da “assistente lavapiatti” diventa “lavapiatti”, poi portiere di notte e dopo due anni è “professore associato” in una università danese. Con tutta l’incredulit­à degli impiegati dell’ufficio di collocamen­to che, pur consapevol­i della mobilità sociale insita nei sistemi scandinavi, non avevano mai assistito a carriere così fulminee.

In questo stesso libro Amoroso, a pagina 178, nell’ultimo capoverso prima dell’Epilogo, scioglie l’enigma. A proposito di “silenzio e riflession­e” Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, Come è profondo il mare. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».

Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci consegna un segreto: scrive di averlo visto e frequentat­o, dopo la sua scomparsa. A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento.

Amoroso pochi giorni fa ne ha parlato con il sussiego e l’ammirazion­e di sempre: «I meriti di Caffè sono riconducib­ili al “piano etico” oltre che a quello scientific­o». Tra gli allievi più noti di Caffè, ci sono Mario Draghi, presidente della Bce, Ignazio Visco, governator­e della Banca d’Italia. E tanti altri nomi di prestigio, da Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, da Guido Rey a Enrico Giovannini. Bruno Amoroso, l’allievo prediletto, è destinatar­io di centinaia di lettere confidenzi­ali. Bruno, in convalesce­nza nella sua Copenhagen, è attorniato dagli affetti più cari e dagli amici di sempre: Ye e Danyi, Lutz e Luca. Con l’ironia di sempre e la lucidità dei ricordi, spinge lo sguardo oltre la finestra; e da Hellerup, un bel quartiere residenzia­le di Copenhagen, ci riporta al primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone». È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti. L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane. La sua profonda capacità di analisi e la sua lucidità previsiva, trovano conferma nelle parole che seguono: «Perché credi – chiede Caffè ad Amoroso con tono quasi accusatori­o – che i sistemi di welfare siano in crisi? Sì certo, come tu giustament­e insegni a Copenhagen, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenzia­le, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamen­te proporzion­ale è cambiata la disposizio­ne delle persone per la solidariet­à e i sentimenti».

Una riflession­e di straordina­ria attualità, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli.

L’ipotesi suicidio si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile e il ritiro in convento emerge in tutta evidenza. Con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibil­e a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinat­e condizioni». Rispose così il sottosegre­tario padre Jesus Torres, autorevole rappresent­ante della “Congregazi­one per gli istituti di vita consacraca­ta e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 25 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro L’ultima lezione.

In un altro bel libro, La Stanza rossa, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflession­i scientific­he. Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confession­i vergate dal professore al suo allievo preferito. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e an- gosciato; e malinconic­o; e trepidante».

Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confession­e premonitri­ce di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabi­li alla comprensio­ne e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazion­e esistenzia­le». Il convento, appunto.

Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaborat­ori, dai suoi studenti. Cita Giuseppe Ungaretti, « mi pesano gli anni futuri».

Una decisione, quella di scomparire, maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro oggi è a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. È convincent­e e plausibile il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudi­ni forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito: «il mito del rifiuto della scienza». Per Amoroso quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvime­nto dei valori, la regression­e culturale in atto.

L’altro mistero - dice Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenu­to rapporti di lavoro e di amicizia - è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano comunista, «il manifesto»? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, soprattutt­o coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazion­e ragionevol­e è che Caffè vedeva nel “manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarl­o per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».

Federico Caffè, la passione civile e l’impegno accademico di una vita trascolora­te nel silenzio, con narrazioni senza più nessi, come sogni.

 ??  ?? il documento Una lettera autografa di Federico Caffè un anno prima di scomparire, nell’87. A sinistra, il Maestro in cattedra all’Università di Roskilde, in Danimarca, nei primi anni Ottanta, affiancato da Bruno Amoroso
il documento Una lettera autografa di Federico Caffè un anno prima di scomparire, nell’87. A sinistra, il Maestro in cattedra all’Università di Roskilde, in Danimarca, nei primi anni Ottanta, affiancato da Bruno Amoroso

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy