Commedia solfeggiata e cantata
Nella spiaggia del Purgatorio, prima di iniziare la sua faticosa ascesa di redenzione, Dante si imbatte nell’anima di Casella. Casella è un caro amico, ma anche un esperto musico, sicché il poeta non resiste alla tentazione di chiedergli di intonare qualche suo verso. Immediatamente Dante, Virgilio e le anime circostanti, tutti quanti sono profondamente mossi dalla musicale seduzione della poesia: «Lo mio maestro e io e quella gente / ch’eran con lui parevan sì contenti, / come a nessun toccasse altro la mente». Vittorio Sermonti è stato, per noi, quello che Casella è stato per Dante. Più di un lettore, più di un commentatore, più di un cantore della Divina Commedia. È stato un sincero e fedele amico del poeta fiorentino, che ha saputo portargli, più di molti altri che nella lettura del divino poema hanno visto un'occasione di personale popolarità, un rispetto e una venerazione unici. Chi ha avuto la fortuna di essere presente a una delle sue letture pubbliche, ha potuto sentire il clima generale di commozione e di profonda compenetrazione. Ci mancherà moltissimo, Sermonti. Sebbene gli «scocciasse un po’ il morire», questo bel ragazzo di 87 anni – era nato a Roma nel 1929 -, ci ha lasciato. Con la sua voce grave, con la sua lieve ironia, con il suo bagaglio di ricordi che ci riconducono a quell’Italia del dopoguerra nella quale fervevano idee, dibattiti e speranze: le sue giovanili frequentazioni quotidiane erano con Garboli, con Calvino, con Bassani, e ancora con Pasolini, con Parise e con Gadda. Sermonti è stato autore di romanzi e saggi letterari, di commenti alla Divina Commedia. Un poeta, un traduttore, un regista radiofonico e teatrale, ma era di più di tutto questo: era un uomo che aveva il vizio di leggere - Il vizio di leggere e Il vizio di scrivere si intitolano due sue celebri raccolte di saggi –, un intellettuale che aveva carpito il potenziale, in termini di energia vocale, latente nei testi letterari. Ha saputo restituire alla poesia, complice soprattutto la magia della radio, il suo senso di letteratura incarnata in una voce. Da esperto di tecnica del verso teatrale, di cui è stato professore all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, ha impartito una l ezione fondamentale: che della lettura poetica bisogna fare un’arte sopraffina, che non basta affidarsi alla metrica musicale del verso, e nemmeno alla drammatizzazione del narrato, o ancor meno alla sola esposizione dei contenuti; l eggere un poema è un'avventurosa operazione da equilibristi, e sono in pochissimi a saper trasmettere il senso di un racconto attraverso la musica. E Sermonti musicista era, o almeno avrebbe voluto essere da ragazzo. Ma poi ebbe il sopravvento l’amore per la poesia, che in fondo dalla musica non è così distante. Esemplare la visita a Gianfranco Contini, nel 1985, quando Sermonti decise di volersi fare “battezzare” dalla sua mano santa. Il divertente dialogo tra i due fu proprio di natura musicale. «Mi foni» gli disse Contini, invitandolo a leggere e a intonare i versi danteschi: e quando Sermonti ebbe terminato la sua prima audizione, il critico commentò: «L’ha solfeggiato benissimo, ora lo legga!». Da lì, le indimenticabili letture dantesche con commento di Sermonti: nella chiesa di San Francesco a Ravenna, ai Mercati di Traiano a Roma, e ovviamente a Firenze, dove la pratica della lectura Dantis ebbe inizio per opera del Boccaccio, che nel 1373 lesse e commentò pubblicamente i primi diciassette canti dell’Inferno. Come racconta nel suo romanzo autobiografico Se avessero, dato alle stampe proprio nel 2016, fu suo padre a introdurlo alla passione per la lettura del poema. Nel 1940, il papà di Vittorio si recava a piedi da Civitavecchia a Siena «con in tasca una microscopica Divina Commedia 5x4 Barbera editore (…) e di tempo in tempo si metteva a sedere su un muricciolo, cacciava il librettino dalla tasca della sahariana, apriva a caso, accendeva una Macedonia, si alzava gli occhiali sulla fronte come un ciclista al giro e solfeggiava piano piano un canto, un canto e mezzo, tre terzine». Un’immagine di struggente umanità, che ci rende inguaribilmente nostalgici.