pietro tripodo
L’AUTORE
Pietro Tripodo è nato a Roma nel 1948, dov’è scomparso nel 1999. Gran parte della sua attività letteraria è apparsa negli anni Novanta dello scorso secolo. Ha curato edizioni di Trakl, di Callimaco e Catullo, di Stefan George e di Arnaut Daniel. Come critico-lettore si è occupato di Antonio Pizzuto, Beppe Salvia, Tommaso Landolfi e Lucio Piccolo. Tuttavia, preziose in particolare sono le sue versioni dal latino classico e umanistico. I componimenti di
Altre visioni apparvero in una collana diretta da Arnaldo Colasanti con l’aggiunta di uno scritto in prosa dell’allora ventisettenne Emanuele Trevi, il quale vi parla della «tragica nobiltà di questa poesia» e sottolinea «un’idea dell’esercizio poetico che assume i tratti eremitici di un’ardua quanto necessaria ascesi». Nel 2004, lo stesso Trevi ha scelto Tripodo come protagonista del racconto
Senza verso. Un’estate a Roma (Laterza). Successivamente, Altre visioni è stato ripreso nel 2007 a cura di Raffaele Manica presso Donzelli, ma comprendendo anche il secondo volume di versi di Tripodo, Vampe del tempo, altri versi inediti e le traduzioni poetiche dell’autore.
NOTA DI LETTURA
Va detto subito, a scanso di equivoci: questa poesia di Tripodo, come tutte le altre, non sembra un’opera della fine del Novecento. Le inversioni sintattiche che inarcano la linea della lingua, come di un ponte che si erga ben più di quanto occorre per superare un fiume; le spezzature fra verso e verso ( enjambements); gli stessi tempi mentali che la poesia impone e organizza, ampi e increspati come meditazioni: difficile attribuire tutto ciò al nostro tempo. E sì che nulla è fermo, pur nell’altezza e nella precisa scansione di questa poesia. C’è moto, discesa, conquista. Contro il «sole espanso» che sembra accecare con la sua potenza le ombre espressive dei visi, ovvero il loro spessore emotivo, il poeta celebra la luce che s’apparta fra i rovi, da cui spuntano indizi superiori. Ciò che sta in alto, le due tortore, le ghiandaie, il mutevole regno delle rondini, si consacra a un rito che onora la terra. Infatti nel finale il poeta “torna agli umani” e s’incammina, procede dalla sublime altezza allo spaziotempo: con il loro aquilone, due uomini tentano di restituire al cielo la gioia ricevuta, la carne e l'innocenza di cui sono costituiti, gravi e leggeri.