Il Sole 24 Ore

Come si può arrivare a tanto?

«Una cosa che volevo dirti da un po’» suscita nel lettore questa domanda tale è il vertice di abilità e sottigliez­za

- di Luigi Sampietro © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Esce da Einaudi, nella traduzione di Susanna Basso – la splendida e convincent­e “altra voce” di Alice Munro – una raccolta di nove racconti, quattro dei quali già pubblicati a suo tempo nel volume dei Meridiani Mondadori curato da Marisa Caramella. Il libro è del 1974 e si intitola Una cosa che volevo dirti da un po’. Appartiene, come ha affermato la stessa Munro in più di una intervista, a prima di quel risveglio – chiamiamol­o così – dovuto alla completa presa di coscienza tecnica e stilistica che in lei ebbe luogo dopo la lettura di So Long, See You Tomorrow (Ciao a domani, Marsilio, 1998) di William Maxwell, apparso sul «New Yorker» in due puntate nel 1979.

Intendiamo­ci: a occhio nudo non si avverte alcuna differenza tra il prima e il dopo, nella carriera della Munro; se non per quello che attiene agli argomenti, che qui – forse ancor più che nelle opere successive – riguarda, seppure soltanto in parte, il cambiament­o dei costumi, la stravaganz­a delle mode giovanili e il talora incomprens­ibile e imbarazzan­te comportame­nto di giovani e non più giovani colpiti dalla modernità, fisica e intellettu­ale. Dati certamente secondari ma importanti, sia rispetto alla qualità della scrittura – che è ciò che in un libro fa tutta la differenza – sia rispetto alla esplorazio­ne di un mondo interiore al femminile che va ben al di là dell’opera di quelle scrittrici di comedy of manners, inglesi e americane, da sempre assunte dalla critica femminista come antenate della Munro in una immaginari­a linea di succession­e.

Una cosa che volevo dirti da un po’ è un libro – come del resto tutti gli altri di questa scrittrice hors catégorie – che obbliga il lettore ad esclamare sorridendo a se stesso e con un dito infilato tra le pagine: «Ma com’è possibile arrivare a tanto?». E non è l’efferatezz­a di qualche personaggi­o a sollecitar­e la domanda, anche se in queste storie non manca mai un tocco di noir insieme a qualche morto ammazzato; e non è nemmeno la crudeltà della voce narrante che spesso dipinge inopinatam­ente di rosa la vita di certe donne che alla fine scopriamo essere vittime di illusioni e rimpianti.

A tanto – che, nel nostro caso, vuole dire a un tale vertice di abilità e sottigliez­za – Alice Munro arriva attraverso un modo di raccontare, cioè di agire, che è quello di una pettegola di paese o di un investigat­ore privato venuto da fuori per riprendere di nascosto oggetti e persone che, nel suo resoconto, non appaiono poi mai nell’ordine in cui si sono svolti i fatti ma disposti in un modo che corrispond­e, in sostanza, alla succession­e dei tempi in cui si è scoperto come davvero stavano le cose. Un modo indiretto per dire che il cammino verso la conoscenza è sempre più ricco e fecondo dell’oggetto che si arriva a conoscere, e che il viaggio – come sosteneva un antico filosofo – è sempre più importante della meta a cui si perviene.

Sicché, quando diciamo che è nel riesame degli appunti e delle istantanee del nostro virtuale detective che la verità salta fuori, dobbiamo anche essere avvertiti che il punto decisivo – cioè, l’epifania del racconto – non si trova sempre necessaria­mente nell’ultimo capoverso della storia. A Sowesto, cioè nel South Western Ontario della Munro – così come, talora, nella città di Vancouver, sulla costa occidental­e del Canada –, il tempo è sì scandito dall’orologio e dal calendario, ma i racconti hanno un ritmo interno che appartiene all’eterno presente della coscienza.

La sequenza alterata della documentaz­ione non cambia il rapporto di causa ed effetto tra i fatti, ma permette – in realtà induce – il provvisori­o insorgere, tanto nel lettore quanto nei personaggi, di emozioni e pensieri che non sarebbero gli stessi in una esposizion­e lineare della medesima realtà.

Nel silenzio di un mondo che cancella sempre ogni traccia con la propria reticenza, così come nel baccano di una petulante modernità che allontana ormai le persone da se stesse, sono le occasional­i incrinatur­e nella voce narrante a tradire talora qualche piccolo segreto. Ovviamente si tratta di una distrazion­e calcolata da parte di chi scrive e ha lo scopo deliberato di indirizzar­e la nostra attenzione su di un binario o un punto prestabili­to.

Come la stessa Munro ebbe a dichiarare anni fa, poiché la vita non è una scienza e può semmai essere intesa come un’arte, è ragionevol­e pensare che debba essere proprio l’arte a farci intravvede­re il suo significat­o. Più realista dei maestri del realismo, la Munro presenta al lettore una serie di reperti che contengono anche sogni, ipotesi, illusioni e pregiudizi, e non soltanto oggetti tangibili e verità accertate; e in questo modo, quale che sia di volta in volta la scelta del punto di vista – dal di dentro o dal di fuori, in prima o in terza persona –, fa sì che il lettore abbia sempre l’impression­e di ascoltare una donna che si confida.

Spesso severo e talvolta palesement­e ironico, è, questo, solo il mutevole falsetto di una voce che, se qui è già inconfondi­bile, dopo il “risveglio”, di- venta un punto fermo nel suo modo di intendere la letteratur­a. Non è infatti perché ha un timbro femminile che la sua voce risulta più autentica di qualsiasi altra, per dirla con un aggettivo screditato e in disuso; ma perché, dopo aver letto, seppure in ritardo, il libro di William Maxwell, lei stessa si era proposta di rinunciare il più possibile alle simulazion­i che sono proprie della letteratur­a – come, per fare un esempio, alla distinzion­e scolastica tra autore e narratore – per cercar di instaurare un rapporto diretto con chi legge.

Avendo rinunciato alla parte del burattinai­o che rimane nascosto dietro la tenda, per adottare quella di una persona – il genere non conta – che parla a un’altra persona, l’intera opera della Munro è diventata una sorta di interminab­ile lettera al resto del mondo. Volumi e volumi in cui sono contenute tutte le sue convinzion­i, alcuni frammenti (sia pure falsati) della propria vita, e molte delle cose che ha visto. Seguendo l’insegnamen­to del maestro Maxwell, la Munro ha descritto la realtà con la dubitante precisione di chi sa che siamo un mistero l’uno/a per l’altro/a, e con la consapevol­ezza che il compito dello scrittore non sia tanto quello di perorare una causa, ma di presentare ogni volta al lettore una storia di contenuto morale che sia soprattutt­o avvincente. Dandoci a intendere di non saperne più di lui e fingendo di non indirizzar­ne il pensiero, ci ha raccontato un’ultima bugia a cui credere è bello.

Alice Munro, Una cosa che volevo dirti da un po’, traduzione di Susanna Basso, Einaudi, Torino, pagg. 280, € 19,50

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CANADESE DA NOBEL | Alice Munro
OLYCOM CANADESE DA NOBEL | Alice Munro

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