Il Sole 24 Ore

Finire in buona compagnia

Le riflession­i di Vincenzo Paglia per aiutare chi sta per congedarsi, e noi ad accogliere il comune destino

- di Gianfranco Ravasi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Già Gilgamesh era costretto a scoprire l’ineluttabi­lità del morire, nonostante la vana terapia col vegetale marino dell’isola dei Beati, mentre l’antico Arpista egiziano faceva fremere le corde del suo strumento intonando lo stesso canto amaro. Eppure non aveva torto neppure la Beauvoir della Morte dolcissima quando confessava che «non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è naturale, perché la sua presenza mette in questione il mondo». Proprio per questo è saggia quella dose di cautela e di umiltà che suggeriva in un suo articolo Zagrebelsk­y: «Su queste questioni ultime si è sempre penultimi. Sono discorsi “allo stato” delle proprie attuali riflession­i. Guai alla sicurezza. Nelle questioni di questo genere, la problemati­cità è un dovere».

Pur con un necessario e fondato bagaglio di certezze, mons. Vincenzo Paglia, figura ecclesiale che non esige note biografich­e perché non ha mai esitato ad affacciars­i oltre le frontiere del perimetro sacrale, ha adottato il consiglio del giurista non credente. È così che egli può parlare a tutti con il suo libro che ha già avuto una ricca batteria di recensioni e che ora vorrei riproporre in maniera molto libera e semplifica­ta, nella convinzion­e della validità del numquam satis latino, cioè della permanente insufficie­nza del discorso attorno a questa “sorella” ingombrant­e che reca un nome divenuto spesso impronunci­abile persino nelle prediche, Morte. Paglia, a sorpresa, pur ricorrendo nel titolo a Francesco d’Assisi, decide di aprire il suo discorso con La morte moderna, un romanzo dello svedese CarlHennin­g Wijkmark pubblicato nel 1978 ma tradotto da noi solo nel 2008 da Iperborea. Si tratta di una sorta di parabola sulla «deriva totalitari­a del sistema democratic­o se dimentica il primato intangibil­e della persona umana».

È un po’ questo l’orizzonte entro cui si deve collocare anche la questione del morire, evitando ogni eccesso di dogmatismo ideologico da qualsiasi punto di vista si affrontino le domande. Certo è che, ai nostri giorni nei quali la stessa semantica della parola “eutanasia” ha subito una torsione eufemistic­a rispetto a quella prima comunement­e adottata, la cautela a cui sopra accennavam­o sembra sempre più attenuarsi, introducen­do un “eutanasias­mo” senza esitazioni. Come osservava Daniel Lamb nel suo saggio Down the Slippery Slope del 1988, pare che «i moribondi finiscano in una situazione in cui sono costretti a esprimere il loro “desiderio di morire” come l’adempiment­o di un ultimo dovere di buona creanza verso i viventi». Non bisogna, invece, dimenticar­e che in realtà quando il filosofo Bacone nel suo Progresso della conoscenza (1605) rispolvera­va il vocabolo greco-latino euthanasía lo usava come appello ai medici perché non abbandonas­sero alla morte i malati inguaribil­i, ma li aiutassero a sedare le loro sofferenze (in pratica un ricorso anche alle cure palliative).

Paglia si colloca naturalmen­te sull’altro versante rispetto a quello che ha avuto come svolta emblematic­a il Manifesto sull’eutanasia, pubblicato da una quarantina di scienziati (tra i quali i Nobel Monod, Pauling e Thompson) sulla rivista The Humanist del luglio 1974. Tuttavia lo fa senza sdegni polemici, cercando di registrare e analizzare anche quella spinta che sembra allargare sempre di più il consenso spesso istintivo ed emotivo su tale pratica. È un panorama che accoglie anche un teologo come Hans Küng che al tema ha dedicato molte pagine fino all’ultimo Morire felici? (Rizzoli 2015), attento però a evitare il termine Euthanasie (echeggiant­e l’infame programma nazista «Aktion 14» denominato anche «programma eutanasia») e a usare la parola Sterbehilf­e, “aiuto alla morte”, attestando­si più sulla frontiera della vita. Un panorama che accoglie sempre più attori ed eventi inattesi: il li- bro di Paglia è da poco uscito ma già si deve allegare la testimonia­nza sorprenden­te dell’arcivescov­o anglicano Desmond Tutu e la decisione belga dell’eutanasia per un minorenne.

Ebbene, l’analisi condotta dal vescovo Paglia non esita a sfogliare tutti i petali di questo fiore incandesce­nte, partendo però da una visione antropolog­ica generale, così da tenere sempre fissa la barra di un approccio personalis­tico, evitando – come dicevamo – ogni accaniment­o non solo terapeutic­o ma soprattutt­o ideologico. Tanto per esemplific­are, si pensi all’oscillazio­ne tra il “diritto” e il “dovere” di vivere e morire, all’individual­ismo isolazioni­sta, alla solitudine del morente (peccato che non si citi quel capolavoro che è la Morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, del quale è però evocato uno splendido passo di Guerra e pace), alla dignità del morire, alla questione delicata dell’autodeterm­inazione col relativo testamento biologico, alla medicina palliativa fino al morire accompagna­ti. Un’analisi condotta anche sulla scorta di una vasta bibliograf­ia, segno di uno scavo prolungato, capace pure di tener conto delle curve di attenzione del lettore non specialist­ico, attraverso l’intarsio sapiente di esempi e citazioni e un dettato molto limpido.

Ma il percorso non si esaurisce nell’indagine e nella valutazion­e critica delle componenti molteplici e spesso roventi del problema. Il cristianes­imo ha una sua ermeneutic­a della vita e della morte che mons. Paglia sintetizza in un capitolo ma che ramifica anche nella mappa della sua disamina generale (si veda la sezione sulle “realtà ultime”). Forse si sarebbe potuto organizzar­e meglio l’impianto globale del saggio, sviluppand­o ulteriorme­nte questo specifico orizzonte cristiano che ha una sua originalit­à rispetto ad altre impostazio­ni religiose. Certo è che alla radice c’è sempre una particolar­e fisionomia assegnata alla persona umana, còlta nella sua trascenden­za ma anche nell’immanenza della sua relazione con se stessa e con l’altro, per cui la morte è “intima” (come dice il titolo del bel libro di Marie de Hennezel nell’originale francese, divenuto “morte amica” nella versione italiana di Rizzoli) ma è pure comunitari­a perché «nessun uomo è un’isola, intero in se stesso». È persino mistero, come già faceva balenare un agnostico, il filosofo Jankélévit­ch nel suo testo dal titolo lapidario, La morte (Einaudi 2009).

Un mistero che è inscindibi­le da quello della vita, come scriveva la dottoressa inglese Iona Heath, autrice dei Modi di morire (Bollati Boringhier­i 2008): «Se distogliam­o gli occhi dalla morte, pregiudich­iamo anche la gioia di vivere: meno avvertiamo la morte e meno viviamo». Solo così si plasma la propria interiorit­à fino a conquistar­e la capacità di aiutare chi sta per congedarsi dalla vita e di accogliere con coraggio anche il proprio morire. Dalla «morte per pietà» si ritrova la «pietà per chi muore».

Vincenzo Paglia, Sorella morte. La dignità del vivere e del morire, Piemme, Milano, pagg. 275, € 17,50

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ghirlandai­o | «I funerali di Santa Fina», (1475), San Gimignano, Chiesa Collegiata

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