Finire in buona compagnia
Le riflessioni di Vincenzo Paglia per aiutare chi sta per congedarsi, e noi ad accogliere il comune destino
Già Gilgamesh era costretto a scoprire l’ineluttabilità del morire, nonostante la vana terapia col vegetale marino dell’isola dei Beati, mentre l’antico Arpista egiziano faceva fremere le corde del suo strumento intonando lo stesso canto amaro. Eppure non aveva torto neppure la Beauvoir della Morte dolcissima quando confessava che «non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è naturale, perché la sua presenza mette in questione il mondo». Proprio per questo è saggia quella dose di cautela e di umiltà che suggeriva in un suo articolo Zagrebelsky: «Su queste questioni ultime si è sempre penultimi. Sono discorsi “allo stato” delle proprie attuali riflessioni. Guai alla sicurezza. Nelle questioni di questo genere, la problematicità è un dovere».
Pur con un necessario e fondato bagaglio di certezze, mons. Vincenzo Paglia, figura ecclesiale che non esige note biografiche perché non ha mai esitato ad affacciarsi oltre le frontiere del perimetro sacrale, ha adottato il consiglio del giurista non credente. È così che egli può parlare a tutti con il suo libro che ha già avuto una ricca batteria di recensioni e che ora vorrei riproporre in maniera molto libera e semplificata, nella convinzione della validità del numquam satis latino, cioè della permanente insufficienza del discorso attorno a questa “sorella” ingombrante che reca un nome divenuto spesso impronunciabile persino nelle prediche, Morte. Paglia, a sorpresa, pur ricorrendo nel titolo a Francesco d’Assisi, decide di aprire il suo discorso con La morte moderna, un romanzo dello svedese CarlHenning Wijkmark pubblicato nel 1978 ma tradotto da noi solo nel 2008 da Iperborea. Si tratta di una sorta di parabola sulla «deriva totalitaria del sistema democratico se dimentica il primato intangibile della persona umana».
È un po’ questo l’orizzonte entro cui si deve collocare anche la questione del morire, evitando ogni eccesso di dogmatismo ideologico da qualsiasi punto di vista si affrontino le domande. Certo è che, ai nostri giorni nei quali la stessa semantica della parola “eutanasia” ha subito una torsione eufemistica rispetto a quella prima comunemente adottata, la cautela a cui sopra accennavamo sembra sempre più attenuarsi, introducendo un “eutanasiasmo” senza esitazioni. Come osservava Daniel Lamb nel suo saggio Down the Slippery Slope del 1988, pare che «i moribondi finiscano in una situazione in cui sono costretti a esprimere il loro “desiderio di morire” come l’adempimento di un ultimo dovere di buona creanza verso i viventi». Non bisogna, invece, dimenticare che in realtà quando il filosofo Bacone nel suo Progresso della conoscenza (1605) rispolverava il vocabolo greco-latino euthanasía lo usava come appello ai medici perché non abbandonassero alla morte i malati inguaribili, ma li aiutassero a sedare le loro sofferenze (in pratica un ricorso anche alle cure palliative).
Paglia si colloca naturalmente sull’altro versante rispetto a quello che ha avuto come svolta emblematica il Manifesto sull’eutanasia, pubblicato da una quarantina di scienziati (tra i quali i Nobel Monod, Pauling e Thompson) sulla rivista The Humanist del luglio 1974. Tuttavia lo fa senza sdegni polemici, cercando di registrare e analizzare anche quella spinta che sembra allargare sempre di più il consenso spesso istintivo ed emotivo su tale pratica. È un panorama che accoglie anche un teologo come Hans Küng che al tema ha dedicato molte pagine fino all’ultimo Morire felici? (Rizzoli 2015), attento però a evitare il termine Euthanasie (echeggiante l’infame programma nazista «Aktion 14» denominato anche «programma eutanasia») e a usare la parola Sterbehilfe, “aiuto alla morte”, attestandosi più sulla frontiera della vita. Un panorama che accoglie sempre più attori ed eventi inattesi: il li- bro di Paglia è da poco uscito ma già si deve allegare la testimonianza sorprendente dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu e la decisione belga dell’eutanasia per un minorenne.
Ebbene, l’analisi condotta dal vescovo Paglia non esita a sfogliare tutti i petali di questo fiore incandescente, partendo però da una visione antropologica generale, così da tenere sempre fissa la barra di un approccio personalistico, evitando – come dicevamo – ogni accanimento non solo terapeutico ma soprattutto ideologico. Tanto per esemplificare, si pensi all’oscillazione tra il “diritto” e il “dovere” di vivere e morire, all’individualismo isolazionista, alla solitudine del morente (peccato che non si citi quel capolavoro che è la Morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, del quale è però evocato uno splendido passo di Guerra e pace), alla dignità del morire, alla questione delicata dell’autodeterminazione col relativo testamento biologico, alla medicina palliativa fino al morire accompagnati. Un’analisi condotta anche sulla scorta di una vasta bibliografia, segno di uno scavo prolungato, capace pure di tener conto delle curve di attenzione del lettore non specialistico, attraverso l’intarsio sapiente di esempi e citazioni e un dettato molto limpido.
Ma il percorso non si esaurisce nell’indagine e nella valutazione critica delle componenti molteplici e spesso roventi del problema. Il cristianesimo ha una sua ermeneutica della vita e della morte che mons. Paglia sintetizza in un capitolo ma che ramifica anche nella mappa della sua disamina generale (si veda la sezione sulle “realtà ultime”). Forse si sarebbe potuto organizzare meglio l’impianto globale del saggio, sviluppando ulteriormente questo specifico orizzonte cristiano che ha una sua originalità rispetto ad altre impostazioni religiose. Certo è che alla radice c’è sempre una particolare fisionomia assegnata alla persona umana, còlta nella sua trascendenza ma anche nell’immanenza della sua relazione con se stessa e con l’altro, per cui la morte è “intima” (come dice il titolo del bel libro di Marie de Hennezel nell’originale francese, divenuto “morte amica” nella versione italiana di Rizzoli) ma è pure comunitaria perché «nessun uomo è un’isola, intero in se stesso». È persino mistero, come già faceva balenare un agnostico, il filosofo Jankélévitch nel suo testo dal titolo lapidario, La morte (Einaudi 2009).
Un mistero che è inscindibile da quello della vita, come scriveva la dottoressa inglese Iona Heath, autrice dei Modi di morire (Bollati Boringhieri 2008): «Se distogliamo gli occhi dalla morte, pregiudichiamo anche la gioia di vivere: meno avvertiamo la morte e meno viviamo». Solo così si plasma la propria interiorità fino a conquistare la capacità di aiutare chi sta per congedarsi dalla vita e di accogliere con coraggio anche il proprio morire. Dalla «morte per pietà» si ritrova la «pietà per chi muore».
Vincenzo Paglia, Sorella morte. La dignità del vivere e del morire, Piemme, Milano, pagg. 275, € 17,50