Lepanto, libertà e vendetta
La battaglia pose fine al giogo di 12mila schiavi cristiani che spezzarono le catene e compirono razzie e uccisioni di ottomani, in concorrenza con i soldati della loro fe de
La battaglia si concluse nel tardo pomeriggio. Man mano che il combattimento scemava e le nubi di fumo pungente cominciavano a diradarsi, uno spettacolo di enorme devastazione accolse i sopravvissuti. Per usare le parole di Ferrante Caracciolo, «il mare era pieno d'huomini morti, di tavole, di vesti, d'alcuni Turchi, che fuggivano a nuoto, d'altri che affogavano, di molti fracassi di vascelli, che ardevano, & altri che andavano a fondo». Bartolomeo Sereno tratteggiò un'immagine simile: tra i relitti in fiamme, l'acqua era «piena di giubbe, di turbanti, di carcasse, di frecce, di archi, di tamburi» e altri oggetti, oltre a una gran quantità di uomini, ancora vivi, ma morenti a causa delle ferite, che i soldati cristiani finivano a «colpi di archibugiate e di zagagliate». Alcuni dei soldati e marinai ottomani che riuscirono a nuotare fino alle navi cristiane e ad attaccarsi alle loro fiancate si videro tagliar via le mani, mentre altri furono tirati a bordo nella speranza di ottenere un riscatto o di ricavarne dei soldi vendendoli come schiavi.
Per molti sulle galee ottomane, d'altro canto, la fine della battaglia significò la libertà tanto agognata: furono liberati più di 12.000 schiavi cristiani. Alcuni erano donne e bambini, catturati durante i raid dei contingenti ottomani nei territori veneziani nella prima parte dell'anno – tra loro gente di Dulcigno e Antivari, che era stata trattenuta infrangendo gli accordi stipulati al momento della resa di quelle città. Molti erano schiavi sulle galee, che sedevano incatenati ai loro banchi, in condizioni drammatiche, spingendo le navi con i remi; di questi, molte migliaia avevano fatto parte della flotta sin da quando era salpata da Istanbul all'inizio della campagna, ma molti erano stati acquisiti con le razzie, andando a rimpolpare i ranghi delle galee, decimati dalle malattie e dalle diserzioni. Come afferma un cronista del tempo, «quando udirono il grido ‘Vittoria! Vittoria!', spezzarono le loro catene e, con le armi che erano state abbandonate dagli ottomani, causarono caos e morte, vendicandosi di tutti gli abusi e le crudeltà subite». Se riuscivano a uccidere quel che restava dei soldati e dell'equipaggio ottomano, il passo successivo era quello di setacciare la galea – e gli indumenti degli ottomani morti – alla ricerca di oggetti preziosi. In questa operazione però dovevano vedersela con la concorrenza dei soldati cristiani, che si riversarono sulle navi nemiche in caccia di bottino. […]
In queste circostanze accadde il peggior incidente di tutta la storia della battaglia di Lepanto. Tra gli schiavi sulle galee ottomane, c'era l'arcivescovo Giovanni Bruni che, come molti del suo gregge, si era vista negare la libertà promessa. I nuovi padroni erano ben consapevoli del suo status, ma sapevano anche che si era opposto con decisione alla resa di Antivari, per cui avevano deciso di umiliarlo pubblicamente mettendolo a remare sul banco di una galea (insieme al nipote Nicolò, il comandante degli stradioti di Dulcigno). Fu su quella galea che Giovanni e Nicolò andarono incontro alla morte. Una relazione veneziana prossima agli eventi affermava che erano stati «ammazzati per mano de Turchi»; un resoconto più tardo, inviato ai gesuiti a Roma, diceva che erano stati entrambi giustiziati dagli ottomani mentre ancora infuriava la battaglia. In realtà furono uccisi da soldati cristiani. Alla fine del XVII secolo dicerie su questo fatto erano trapelate nella regione: l'arcivescovo di Skopje scrisse che «nel primo assalto» Bruni era stato decapitato da alcuni soldati che lo avevano preso per un ottomano. Più tardi, la tradizione di famiglia di un nobile dalmata raccontava la stessa storia: Bruni era stato ucciso per errore «al momento in cui la galea fu presa». La realtà era però anche peggio.