Le archivisioni di Sant’Elia
La Triennale dedica una retrospettiva al grande architetto che immaginò città del futuro senza poterle realizzare
Nel 1907, quando da Como sbarcò a Milano, Antonio Sant’Elia era un giovane di belle speranze: un provinciale pieno di ambizioni, eccitato dallo spettacolo febbrile di una città che aveva appena chiuso i trionfi dell’Esposizione Universale. Diciottenne, povero di mezzi (il padre era un modesto barbiere), munito di diploma di perito edile, Sant’Elia aveva in tasca il suo primo contratto per i lavori di completamento del canale Villoresi. Era entrato in silenzio e dalla porta di servizio, dall’operoso hinterland milanese dove la modernità s’affacciava con il volto ruvido della tecnica per canalizzare le acque, rendere sicure le terre, e rinforzare le retrovie da cui stava partendo la rivoluzione della città.
Oggi Antonio Sant’Elia rientra dalla porta principale, accolto nelle sale della Triennale di Milano con una mostra dal titolo «Sant’Elia. Il futuro delle città» che fa il punto non solo delle vicende del suo tempo, ma si proietta nella decifrazione delle ragioni di un successo imperituro ed internazionale, i cui più evidenti segnali si colgono nelle proiezioni ardimentose di grattacieli di vetro e d’acciaio, di città galleggianti sulle acque o, al contrario, sospese al limite del cielo, dove l’etichetta del Futurismo si trasforma nel sinonimo passpartout di futuribile. Non a caso la mostra si conclude con il monumento «Il piccolo Sant’Elia» disegnato da Alessandro Mendini come omaggio all’eterno futurismo che è in ognuno di noi.
Articolata in quattro sezioni affidate a quattro curatori, la mostra ci introduce in una sorta di tunnel colorato che non sarebbe dispiaciuto al giovane architetto per la spiccia determinazione di un allestimento per fasce di colori assai violente: quasi squarci di granata, fortunatamente meno letali di quel colpo che lo centrò alla testa il 10 ottobre 1916 mentre combatteva contro gli austriaci sul fronte di Quota 77 sopra Monfalcone. Aveva appena 28 anni: usciva dalla storia ma entrava di diritto nel mito.
Milano fu il catalizzatore di tutte le energie sino allora inespresse: mezzo milione d’abitanti, un piano regolatore per governare la tumultuosa espansione della città, un’industria che si estendeva attorno alla cerchia delle mura e dei navigli come una possente corona di ferro (la Pirelli di Ponte Seveso, la Breda, le acciaierie Redaelli, i gasometri della Carlo Erba), punteggiata da una miriade di ciminiere: quelle che Boccioni, proprio nel 1907, dipingeva dal balcone del suo studio di porta Romana.
Milano era davvero una città “elettrica”, che attingeva energie dalle acque canalizzate nelle centrali (di Vizzola, Paderno e Trezzo d’Adda)per produrre l’ «oro bianco» che alimentava la macchina della sua crescita esponenziale. Non a caso Marinetti l’aveva scelta come sede d’elezione, trasformando la borghesissima casa Rossa di via Senato nel quartier generale del movimento da lui stesso fondato, il Futurismo.
Il giovane Sant’Elia capisce subito che deve “resettare” la sua formazione se vuol indirizzare in maniera significativa il suo talento e le sue aspirazioni: sceglie l’Accademia di Brera entrando in contatto con la “meglio gioventù” (Carrà, Chiattone, Dudreville, Funi, Russolo e ovviamente Boccioni) che si era radunata a Milano da ogni parte d’Italia. Ma oltre Brera c’è un’altra scuola: quella dei caffè(il Gambrinus, il Dova, il Campari) dove l’arte sfocia nella vita, come dimostrò Boccioni nella Rissa in Galleria dove il tafferuglio i nnesca l a vertiginosa scomposizione della città di pietra in un sfavillare di colori simili a fiamme. Antonio Sant’Elia dovette subito cogliere il senso di quella visione che reificava la profezia di Marx : tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.
Antonio si dimostra avido di informazioni, osserva la scena attorno, legge assiduamente giornali e riviste d’architettura, colleziona immagini di utopie urbane come le illustrazioni americane di King’s Dream of New York o quelle milanesi di Mario Stroppa che dà veste grafica agli avveniristici progetti di una Milano estesa all’infinito. Guarda anche a Vienna, dove Otto Wagner aveva posto il tema della metropoli al centro della sua agenda di architetto; impara ad applicare le tecniche del disegno apprese a Brera dal Mentessi che gli trasmette i segreti del worm’s eye view: cioè a rappresentare l’architettura come se l’occhio guardasse da basso - come un verme appunto - in modo da far risaltare gli oggetti quasi fossero di scala colossale. Per vivere deve prestare il suo talento di disegnatore ad altri progettisti (come nel 1912 per il concorso per la nuova stazione di Milano), ma nel suo studio di via San Raffaele accatasta disegni su disegni: fogli piccoli o addirittura minuscoli in cui sperimenta come un giocoliere prima dell'uscita in scena, esercizi ginnici elementari ed incisivi , i «dinamismi architettonici» (come furono battezzati dal poeta Escodamè), che gli attireranno ammirazione degli amici e l’interesse di Marinetti, cui non par vero di aver risolto il teorema dell’architettura futurista, dopo la pittura, la fotografia, la musica e la poesia.
La svolta trova il suo epilogo clamoroso nella mostra di Nuove Tendenze del 1914, cui partecipa con una serie di tavole intitolate la Città Nuova. Un caleidoscopio di visioni di città mai viste: scorci di un futuro pensato nella febbre del sonno, pareti scabre di cemento percorse da liane d’ascensori messi in vista. La città che sale , ma anche la città che sprofonda: nel sottosuolo che rivela la meccanica che affascinò Fritz Lang, nei piani sfalsati di strade che si intrecciano, di piani che si sospendono in un vuoto dove nessun umano osa affacciarsi. Eppure da allora generazioni di architetti si sono affacciati sulle finestre di quei disegni, raccogliendone l’energia a dispetto della loro enigmatica lacunosità.
Antonio Sant’Elia. Il futuro delle città, Milano, Triennale, fino a 8 gennaio 2017. Catalogo Skira