False eco di Testori
L’immagine iniziale è decisamente travolgente: Erodiade, la protagonista dell’Erod iàs di Giovanni Testori, nella messinscena firmata da Renzo Martinelli al Teatro i di Milano è una sorta di manichino decapitato con in mano la testa del Battista, che lei stessa ha preteso venisse mozzata: questa macabra testa barbuta e sanguinolenta spunta più o meno all’altezza del suo addome: e poiché si tratta della testa dell’attrice che la interpreta, infilata dentro il manichino, l’effetto è che Erodiade faccia tutt’uno con la propria vittima, che parli, sinistramente, attraverso la sua bocca.
Questa identificazione totale, fisica fra la moglie del tetrarca Erode e il profeta da lei punito per non avere corrisposto il suo amore è l’idea portante dello spettacolo, la cifra della lettura registica di Martinelli. Dopo un po’, il manichino verrà sollevato verso l’alto, lasciato sospeso sotto il soffitto, e alla ribalta resterà solo l’attrice, la brava Federica Fracassi, spogliata di quel guscio come se ne venisse messa a nudo l’anima, l’intima essenza: ma conserverà ancora sul volto, prima di strapparsela definitivamente, la barba del Battista. L’abito, l’aspetto rimandano alle sculture di quel Sacro Monte di Varallo tanto caro all’autore di Novate, ma l’azione avviene dentro la vetrina di un negozio di oggi, fra teche con finti falli, come in una sorta di non-luogo amorfo, spersonalizzato dove anche il desiderio carnale è ridotto a una risorsa meramente commerciale.
Erodiàs, in questo testo che è il secondo dei Tre lai, i tre lamenti funebri di altrettante donne sul corpo dell’amato, scritti da Testori nelle sue ultime settimane di vita, come espressione di un’estrema coscienza poetica spasmodicamente acuita dalla percezione della morte ormai prossima, è in effetti una figura in qualche modo “di passaggio”, una sorta di tramite fra Cleopatràs, la regina barbarica ancora tutta immersa nel suo universo pagano, e la Mater Strangosciàs, la Madonna che nello strazio per la perdita del figlio è già approdata a un’ingenua, elementare rivelazione.
Erodiàs, invece, in questo percorso di ascesi spirituale è ancora a metà strada: l’attrazione per il Battista, l’ascolto delle sue parole le ha come schiuso la percezione di una sacralità più alta, il cui avvento è però rimandato a un’epoca successiva, che lei può solo limitarsi ad aspettare. Come spesso capita nella visione testoriana, paradossalmente il massimo della passione erotica, quella che porta all’uccisione del suo oggetto, coincide col massimo dell’ardore mistico, benché qui solo intuito, intravisto nel terzo personaggio femminile che, nella stesura originaria dell’opera, sarà alla ribalta dopo di lei.
Se, dunque, il vistoso apparato scenografico – per quanto artificiosamente sovrapposto a quella nuda dimensione della parola che per Testori è l’unica materia del teatro – risulta a suo modo attinente a una certa linea del testo, convince meno a mio avviso la sofisticata elaborazione sonora in cui la voce si carica di echi, si sdoppia, si insegue in un alternarsi di brani registrati e altri detti dal vivo. Martinelli, da qualche tempo, ha un vero culto per questi effetti acustici che però, nella circostanza, finiscono col sovrastare il verso testoriano, alterandone il ritmo, il limpido flusso verbale.
I Tre lai sono, in sostanza, un itinerario di purificazione interiore ma anche stilistica, in cui la lingua infiammata dell’Ambleto si sublima, si fa lieve e trasparente. La sovrabbondanza di segni registici sembra contrastare un po’ con un procedimento fondamentalmente a togliere. E non aiuta forse la Fracassi, che è un’attrice di straordinarie qualità, a trovare le giuste misure vocali nell’accostarsi a questa creatura arrochita e rabbiosa: non a caso il suo momento più ispirato è poco prima della fine, quando rinuncia a tutti gli orpelli spettacolari, si libera dei membri maschili, dei posticci, dei microfoni e si offre inerme a un confronto quasi fisico coi versi testoriani.
Erodiàs di Giovanni Testori, regia di Renzo Martinelli. Milano, Teatro i, fino al 5 dicembre