L’ultimo giro di giostra
Un attacco di nostalgia di Torino com’era, di piazza Vittorio brutta e caotica ma con quell’odore di zucchero filato...
Quando Ulisse torna a Itaca, come sappiamo, ha l’aspetto di un vecchio mendicante. Così lo ha tramutato Atena per proteggerlo, perché non venga riconosciuto dal nemico: il suo ritorno e la sua vendetta esigono un mascheramento, una finzione. Lo riconoscono solo il vecchio cane, perché l’olfatto non può ingannarlo, e la nutrice che lavandogli i piedi vede la cicatrice sulla gamba, ricordo della ferita che gli inflisse un cinghiale quand’era ragazzino.
Ma con il figlio Telemaco, che ha lasciato bimbo di pochi mesi e che mai quindi potrebbe riconoscerlo, Ulisse deve usare la parola: a lui dichiara di essere Ulisse, e affermare il suo nome gli è sufficiente per essere creduto. Così, a suo padre Laerte enumera gli alberi che aveva piantato per lui bambino: tredici peri, dieci meli, quaranta fichi... . E a questo punto anche il padre lo riconosce.
Con Penelope invece non gli bastano né la cicatrice né i ricordi né la semplice dichiarazione del suo nome. Lei diffida, vuole qualcosa in più. Per credere, per riconoscere davvero e senza dubbi che quell’uomo vestito di cenci è veramente il suo Ulisse, Penelope ha bisogno di un indizio molto privato, che appartenga solo a lei, alla sua vita col marito. Quando ordinerà ai servi di portare in sala il loro letto, Ulisse le fornirà la prova: no, quel letto non si sposta perché lui lo ha costruito intagliandolo direttamente sul tronco di un vecchio ulivo. Questo è il segno privato, che solo lui poteva conoscere, dunque l’unico che possa convincerla.
Secondo me, bisognerebbe continuare a distinguere pubblico e privato, oggi come ieri. Soprattutto bisognerebbe ancora considerare alcune cose soltanto e rigorosamente private, invece di divulgarle e condividerle, rendendole universalmente pubbliche. Se Ulisse avesse rivelato a mezzo mondo d’aver costruito il letto coniugale sul tronco di un ulivo, chiunque avrebbe potuto spacciarsi per lui. E Penelope non avrebbe mai riconosciuto veramente il suo sposo.
Dovremmo pensare a Penelope, ogni volta che mandiamo una foto o un video ad altri, immettendoci nella scia della condivisione cosmica. Ogni volta che spediamo via etere l’immagine della pizza che stiamo per addentare, del cane che ci fa le feste, di noi abbracciati alla persona amata, o la prima ecografia del bambino che aspettiamo, dovremmo chiederci che cosa stiamo facendo, e distinguere che cosa mandare in giro e cosa tenere per noi, che cosa può appartenere anche agli altri, e a chi, e che cosa invece appartiene solo a noi. Capisco che fare quel clic è irresistibile, ma ripristinare qualche confine non sarebbe male. Ci piace tanto, in inglese, la parola privacy, ne abbiamo fatto la protagonista di leggi e regole sociali, e poi invece siamo noi stessi che non sappiamo proteggere ciò che, detto banalmente nella nostra lingua, abbiamo di più “privato”?
Il segno del letto scolpito nell’ulivo scioglie a Penelope le ginocchia, e il cuore. Ma, anche, rassicura Ulisse della fedeltà di sua moglie, di quanto saldo (radicato!) sia rimasto il loro legame, attraverso cui egli può finalmente ritrovarsi dopo vent’anni: è proprio negli occhi di
| Leonardo Roda (Racconigi 1868 - Torino 1933) Luna Park in piazza Vittorio Veneto a Torino
Penelope che Ulisse riconosce se stesso. Si vede, specchiato. Come dicono Françoise Frontisi-Ducroux e JeanPierre Vernant, nel loro libro di qualche anno fa, Ulisse e lo specchio.
I segreti ci specchiano, dunque. Per questo è bene che conserviamo e coltiviamo i nostri segreti, le zone biografiche nascoste e solo nostre; manteniamole all’ombra e riserviamole davvero a pochi, soltanto a coloro nei quali è bello riconoscerci, ritrovare quel che siamo come in uno specchio, anche dopo lunghi viaggi, peregrinazioni, naufragi. Non priviamoci della salvezza, solo per il gusto estemporaneo di sentirci al centro dell’universo condividendo un selfie, una foto, un video. Il centro è sempre altrove, e comunque gli angoli ombrosi hanno un fascino ineguagliabile.
*** Trovo che oggi ci sia un uso molto disinvolto della parola. Per esempio un critico può ribaltare la tesi di un libro e attaccare quella tesi ribaltata (un’astuzia retorica che si chiama straw-man), senza che l’autore possa obiettare nulla. Oppure un politico può dire che ha abbassato le tasse e invece le ha di fatto aumentate; o, di fronte allo snocciolamento di dati, può impunemente dire che lui non è d’accordo. Ma come si fa a essere o non essere d’accordo con dei dati? I dati non sono inconfutabili in quanto dati?
Nessuno viene mai messo di fronte alla confutabilità, alla menzogna, all’inverosimiglianza di quel che dice. Così finisce che tutti dicono quel che gli pare, così, a capriccio. O, peggio ancora, seguendo il filo del proprio opportunismo. Così finisce che i discorsi che ci stanno intorno e ci rotolano addosso siano casuali, raffazzonati, inappropriati, approssimativi. Falsi.
E la parola soffre, in silenzio. Non può reagire, non sa cosa dire, come farsi ascoltare. La parola avrebbe di per sé una sua verità, incontrovertibile: sarebbe il suo significato letterale, quello che troviamo definito sul vocabolario. Ma la questione non è di possedere, e usare bene, un vocabolario: è di aver cara la propria credibilità. Le società tradizionali avevano dei meccanismi atti a governare la veridicità delle parole e dei discorsi in pubblico, orali o scritti che siano: per esempio avevano il concetto di reputazione.
Fama, buon nome, rispettabilità so-
ciale: reputazione era il giudizio che un gruppo vasto di persone aveva di un tal individuo.
E valeva da sistema autoregolativo, per quel tale. Quando gli capitava di parlare in pubblico, di sicuro diceva a se stesso: ho una buona reputazione, non posso rovinarmela parlando a vanvera e dicendo quel che mi pare.
Domanda: chi parla sui social network, dentro questo enorme, planetario chiacchiericcio in cui siamo tutti immersi, pensa di possedere una reputazione?
*** Quand’ero piccola, in piazza Vittorio a Torino, c’era il Luna Park per Carnevale. Noi abitavamo in periferia, quindi prendevamo il pullman per piazza Castello e poi di lì facevamo a piedi via Po fino alle giostre, tra coriandoli e bambini in costume da fatina e cowboy.
Per chi non conosce Torino, piazza Vittorio è spettacolare. È una piazza enorme e in discesa, che finisce nel Po. Su tre lati ci sono le case, e il quarto lato non esiste, è spazio che si apre al fiume e poi alla collina che fa da fondale. Ecco, l’ottovolante stava proprio sull’angolo finale, a sinistra, e quando si faceva la discesa mozzafiato sembrava di finire dritto nel Po.
Poi, per anni, la piazza è stata un enorme parcheggio libero, neanche asfaltato. Tutti ci buttavamo l’auto un po’ come veniva. E ora, dalle Olimpiadi invernali del 2006, i parcheggi sono sotterranei e la piazza è un enorme spazio vuoto, dove è bellissimo passeggiare o prendersi qualcosa al bar.
Stavo appunto passeggiando, stamattina, e m’è venuto questo ricordo dell’ottovolante. Ho avuto un barlume, ho pensato che i popoli, le civiltà, le culture sono come le piazze: cambiano. Una volta c’è un Luna Park, una volta un parcheggio e un’altra volta una sparata di bar. E non ha senso chiedersi se era meglio prima o dopo. Non esiste un meglio e un peggio. Per questo secondo me non ha quasi mai senso parlare di progresso (potremmo dire che il parcheggio è un progresso rispetto alle giostre? Dipende dai punti di vista...): esiste solo il cambiamento. Ecco. Allora perché mi viene stamattina un irrefrenabile amore per piazza Vittorio com’era, caotica, brutta, con la terra battuta e il vociare urlante dei bambini sugli aeroplanini, il treno fantasma e la pesca
dei pesci rossi? Perché ora farei l’impossibile per rivedere quelle immagini, con tanto di odor di zucchero filato?
Lo so, è solo un deplorevole attacco di nostalgia. È il doloroso e affettuoso, inevitabile a una certa età, ritorno alla propria infanzia. È il problema di aver la vita lunga, insomma, e avere stampate nella mente le immagini di quel che fu. Poi passa: basterà che la mia generazione sparisca e nessuno saprà più delle giostre in piazza Vittorio, nessun confronto potrà essere fatto, dunque non ci saranno problemi di nostalgia. Certo, magari fra trent’anni piazza Vittorio sarà la stazione di partenza delle aeronavi, e coloro che oggi sono giovani avranno nostalgia dei tavolini del bar... . Ma finisce lì: la nostalgia è un problema tutto interno a ogni singola generazione, non passa a quelle successive, non dà contagio. Così, tutto ricomincia sempre nuovo. E il vecchio sparisce nel nulla, come se non fosse mai stato.
E Torino, cosa diventerà? E l’Italia? E quest’Europa che si disgrega senza essere mai nata? «Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceano?».
Leopardianamente: «tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona».
Quindi, fine delle giostre.
*** Non so se oggi al Luna Park c’è ancora la pesca dei pesci rossi, se tirando una pallina e centrando il barattolo di vetro si va a casa con un sacchetto trasparente pieno d’acqua, dove cerca vanamente di nuotare un pesciolino rosso. Non so nemmeno che cosa sono diventati oggi i Luna Park, e se i bambini ancora ci vanno.
In primavera era uscita una favoletta di Vivian Lamarque, su questo: la storia di due bambini, fratello e sorella, che vincono due pesci rossi e se li portano a casa nel sacchetto, e, per ribadire ognuno il possesso del proprio personale pesciolino, li mettono in due bocce di vetro distinte, non in una sola, dove sarebbero stati felicemente insieme.
Ma chissà, forse anche Vivian Lamarque ha ripescato le sue immagini infantili, ed è anche lei come me all’estremità del filo che conclude la nostra nostalgia generazionale.