Quelle convergenze dei populismi di destra e di sinistra
Apochi giorni dal referendum sulla riforma istituzionale, l’Italia appare come ripiegata su se stessa. Bombardati dalle opposte propagande del sì e del no su un tema su cui, secondo i sondaggi, la maggior parte dei cittadini non ha (né potrà avere il 4 dicembre) un’opinione meditata, rischiamo di non accorgerci di quello che ci sta accadendo intorno, e che spesso è assai più foriero di conseguenze di quel che accade dalle nostre parti. Il 4 dicembre, ad esempio, si ripeteranno in Austria le ele- zioni per la presidenza della repubblica, già svoltesi a maggio di quest’anno ma poi annullate per irregolarità nello spoglio dei voti.
In quelle elezioni era avvenuto un fatto senza precedenti: al primo turno i candidati dei due partiti tradizionali (popolari e democratici), che da sempre si alternano alla guida del Paese e in parlamento hanno la maggioranza assoluta dei seggi, avevano raccolto solo il 22% dei voti (11% a testa), contro il 35% del candidato del Partito della libertà (Norbert Hofer, su posizioni nazionaliste e xenofobe), il 21,3% del candidato dei Verdi, e un sorprendente 19% della candidata indipendente Irmgard Griss, che è un magistrato e non afferisce ad alcun partito. Sarebbe come se, in un’ipotetica elezione diretta del presidente della repubblica italiana, si presentasse da solo (senza alcun partito alle spalle) un Zagrebelsky o un Rodotà e raccogliesse lo stesso numero di consensi dei due candidati del Pd e di Forza Italia messi insieme. Vedremo fra pochi giorni chi prevarrà fra il verde Van der Bellen (appoggiato dai partiti tradizionali) e il candidato di rottura Norbert Hofer, ma sta di fatto che quest’ultimo ha già ventilato la possibilità di indire un referendum per portare l’Austria fuori dall’Unione Europea, nel caso quest’ultima dovesse esigere dagli stati membri ulteriori cessioni di sovranità. Un’analoga minaccia di uscita dall’Unione Europea è stata agitata a più riprese da Marine e Marion Le Pen, l’ultima volta giusto un paio di giorni fa in varie interviste rilasciate da Marion a quotidiani italiani. L’eventualità di un’uscita della Francia dalla Ue può apparire remota, ma lo diventa un po’ meno se si pensa che la primavera prossima si voterà per la presidenza della Repubblica, e quasi certamente Marine Le Pen andrà al ballottaggio. Di una possibile uscita dall’Unione europea, d’altro canto, si ricomincia a parlare in Olanda (che già bocciò la Costituzione europea nel 2005), in Danimarca, persino in Svezia, tutti Paesi in cui i partiti populisti sono molto forti, e lo sono da tempo. Per non parlare dei Paesi del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) che per ora non minacciano esplicitamente l’uscita, ma sono in perenne conflitto con Bruxelles, specie sulle questioni dell’immigrazione.
Dunque, dopo la Brexit, si comincia a parlare di Frexit (France exit), Nexit (Netherlands exit), Swexit (Sweden exit). Un trend che nasce a destra, laddove partiti populisti e xenofobi rivendicano un riequilibrio di poteri a favore degli stati nazionali, ma riceve potenti spinte anche da sinistra, ogniqualvolta la critica alla rigidità delle regole di bilancio europee e alla dottrina dell’austerità entra in risonanza con le preoccupazioni identitarie e nazionaliste dei movimenti anti-immigrati.
Del resto, quello di una sinergia, o convergenza preterintenzionale, fra populismo di destra e di sinistra, è uno scenario che, negli ultimi anni, si è già presentato più volte, non solo in Europa. Negli Stati Uniti, alla vittoria di Trump – populista di destra – ha fornito un robusto aiuto il populismo di Bernie Sanders, che ha scavato un solco con Hillary Clinton. Così nel Regno Unito il radicalismo di Jeremy Corbyn, e la sua tiepidezza nei confronti del Remain, hanno spianato la via al successo della Brexit. In Grecia, il populista di sinistra Alexis Tsipras non ha esitato a formare un governo rosso-nero con il partito di estrema destra Anel, xenofobo e nazionalista. In Francia, non è un mistero che la Brexit sia stata salutata con favore non solo da Marine Le Pen ma anche da Jean-Luc Mélenchon, leader populista di estrema sinistra, fra i probabili candidati alla presidenza della repubblica l’anno prossimo. Visto da questa prospettiva, il voto di domenica prossima in Austria, per la presidenza della repubblica, rappresenta un punto di passaggio decisamente importante. Anche per noi. Se dovesse vincere Norbert Hofer diventerebbe sempre più difficile per l’Europa, e segnatamente per la Germania, che dell’apertura delle frontiere ha fatto una bandiera, continuare a ignorare le spinte nazionaliste e xenofobe che stanno attraversando le opinioni pubbliche europee. Quanto a noi, dopo l’esito dei due referendum svizzeri antistranieri del 2014 e del 2016, entrambi conclusi con una vittoria delle forze della chiusura, dopo le ripetute minacce austriache di ripristinare i controlli al Brennero, difficilmente potremmo liquidare con un’alzata di spalle una eventuale vittoria di Norbert Hofer e del Partito della Libertà. Dopotutto quel partito è il medesimo che, nel 2000, ai tempi in cui lo guidava Jorg Haider, suscitò l’indignazione dell’establishment europeo per la vittoria (e l’andata al governo) di una forza allora tacciata di neonazismo, antisemitismo, islamofobia. Ora quasi tutti riconoscono che si trattò di un abbaglio ideologico, e che quel partito e i suoi leader, ieri come oggi, non sono dei deplorevoli nostalgici del tempo che fu, ma l’espressione di un disagio profondo, e quanto mai attuale, di settori importanti delle opinioni pubbliche europee. C’è da sperare che, questa volta, una eventuale vittoria del candidato Norbert Hofer sia presa, dalle autorità italiane così come da quelle europee, con meno superficialità di quella mostrata 16 anni fa.