I rumors gonfiati sugli Npl italiani
Che a queste latitudini la parola referendum accenda la luce su scenari apocalittici è comprensibile, ma che, per automatica assimilazione, gli stessi scenari debbano essere trasferiti fra le pieghe della nostra cronaca, lo è molto meno.
Accecati dalla Brexit, media e commentatori britannici, con uno zelo che non ha uguali nel resto del mondo, si esercitano da settimane a valutare i destini del nostro Paese alla vigilia del referendum costituzionale. Accade così che nelle stesse ore in cui una voce annuncia l’inevitabile uscita dall’euro di un’Italia avara di riforme, un’altra rileva che, secondo osservatori anonimi, otto banche italiane rischiano di essere poste in risoluzione. Il riferimento è a una catena di eventi che sarebbe innescata da un «no» al referendum italiano del 4 dicembre, prologo al fallimento dell'aumento di capitale del Monte dei Paschi, evento che anticiperebbe di poco la liquidazione di otto istituti.
In realtà non è un pensiero unico. Altre voci della City - le manteniamo anche noi anonime - credono che per arrivare al cosiddetto « point of non viability » alle banche italiane manchi ancora molta strada. « Certamente - notano - per Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Carige, ma anche per il Monte dei Paschi di Siena. La variabile che crea insicurezza è quella della stabilità politica, non credo affatto negli automatismi che sono stati prefigurati » .
Un’opinione? Sì, esattamente come le altre. I fatti, invece, dicono che – ma il messaggio non passa – i non performing loans non ammontano a 360 miliardi di euro come si sente dire da tempo oltre la Manica, ma a una cifra che al netto degli accantonamenti esistenti è di circa 200 miliardi ( 202 miliardi valutati dall’Eba nel 2015). Netto e lordo si confondono e il messaggio dell’armageddon prossimo venturo va gonfiandosi secondo una dinamica classica già vista nel passato recente.
Nessuno nega che oggi - seppure non certo come ieri - le difficoltà ci siano. Il sistema bancario allineato dietro a Mps è esposto a venti che minacciano di farsi tempesta. Il « sì » è percepito come approdo più sicuro del « no » , per il semplice motivo che coincide con la sensazione di una recuperata stabilità politica lungo procedure parlamentari snelle ed efficaci. È questo che chiede la City, metafora di mercati ma anche opinion makers, come lo chiede il resto della comunità internazionale che vedono nell’incertezza di governo e nell’arzigogolo burocratico i peggiori nemici per il futuro del nostro Paese.
Eppure riproporre, ora, e con tanta ansia, il caso di un’Italia che si vuole dipingere come eterno malato d’Europa ha, una volta di più, il sapore di un’arma di distrazione di massa, nell’era incerta della Gran Bretagna post europea. I paragoni fra Londra del 23 giugno e Roma del 4 dicembre non calzano. Il primo è stato un atto di harakiri politico ad opera di un premier che ha sottovalutato tutto eccetto la propria ambizione, il secondo un passaggio inevitabile nel contesto politico esistente per riformare lo Stato. Il primo ha sprofondato il Paese nell’incognita del proprio destino geopolitico reso ancor più complesso dall’elezione di Donald Trump. Il secondo è un passaggio storico, non crediamo esistenziale, per l’Italia, almeno per chi è convinto che il «no» potrebbe risolversi in un’occasione di modernizzazione andata persa. Irriterà non poco i mercati, lo ripetiamo, ma altre voci della City non s’attendono affatto l’apocalisse a tempo indeterminato immaginata, in queste ore, fra sussurri e titoli. A condizione, però, che il quadro politico sappia recuperare, rapidamente, una prospettiva di stabilità. E questo è motivo di ragionevolissima preoccupazione.