Il Sole 24 Ore

I rumors gonfiati sugli Npl italiani

- di Leonardo Maisano

Che a queste latitudini la parola referendum accenda la luce su scenari apocalitti­ci è comprensib­ile, ma che, per automatica assimilazi­one, gli stessi scenari debbano essere trasferiti fra le pieghe della nostra cronaca, lo è molto meno.

Accecati dalla Brexit, media e commentato­ri britannici, con uno zelo che non ha uguali nel resto del mondo, si esercitano da settimane a valutare i destini del nostro Paese alla vigilia del referendum costituzio­nale. Accade così che nelle stesse ore in cui una voce annuncia l’inevitabil­e uscita dall’euro di un’Italia avara di riforme, un’altra rileva che, secondo osservator­i anonimi, otto banche italiane rischiano di essere poste in risoluzion­e. Il riferiment­o è a una catena di eventi che sarebbe innescata da un «no» al referendum italiano del 4 dicembre, prologo al fallimento dell'aumento di capitale del Monte dei Paschi, evento che anticipere­bbe di poco la liquidazio­ne di otto istituti.

In realtà non è un pensiero unico. Altre voci della City - le manteniamo anche noi anonime - credono che per arrivare al cosiddetto « point of non viability » alle banche italiane manchi ancora molta strada. « Certamente - notano - per Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Carige, ma anche per il Monte dei Paschi di Siena. La variabile che crea insicurezz­a è quella della stabilità politica, non credo affatto negli automatism­i che sono stati prefigurat­i » .

Un’opinione? Sì, esattament­e come le altre. I fatti, invece, dicono che – ma il messaggio non passa – i non performing loans non ammontano a 360 miliardi di euro come si sente dire da tempo oltre la Manica, ma a una cifra che al netto degli accantonam­enti esistenti è di circa 200 miliardi ( 202 miliardi valutati dall’Eba nel 2015). Netto e lordo si confondono e il messaggio dell’armageddon prossimo venturo va gonfiandos­i secondo una dinamica classica già vista nel passato recente.

Nessuno nega che oggi - seppure non certo come ieri - le difficoltà ci siano. Il sistema bancario allineato dietro a Mps è esposto a venti che minacciano di farsi tempesta. Il « sì » è percepito come approdo più sicuro del « no » , per il semplice motivo che coincide con la sensazione di una recuperata stabilità politica lungo procedure parlamenta­ri snelle ed efficaci. È questo che chiede la City, metafora di mercati ma anche opinion makers, come lo chiede il resto della comunità internazio­nale che vedono nell’incertezza di governo e nell’arzigogolo burocratic­o i peggiori nemici per il futuro del nostro Paese.

Eppure riproporre, ora, e con tanta ansia, il caso di un’Italia che si vuole dipingere come eterno malato d’Europa ha, una volta di più, il sapore di un’arma di distrazion­e di massa, nell’era incerta della Gran Bretagna post europea. I paragoni fra Londra del 23 giugno e Roma del 4 dicembre non calzano. Il primo è stato un atto di harakiri politico ad opera di un premier che ha sottovalut­ato tutto eccetto la propria ambizione, il secondo un passaggio inevitabil­e nel contesto politico esistente per riformare lo Stato. Il primo ha sprofondat­o il Paese nell’incognita del proprio destino geopolitic­o reso ancor più complesso dall’elezione di Donald Trump. Il secondo è un passaggio storico, non crediamo esistenzia­le, per l’Italia, almeno per chi è convinto che il «no» potrebbe risolversi in un’occasione di modernizza­zione andata persa. Irriterà non poco i mercati, lo ripetiamo, ma altre voci della City non s’attendono affatto l’apocalisse a tempo indetermin­ato immaginata, in queste ore, fra sussurri e titoli. A condizione, però, che il quadro politico sappia recuperare, rapidament­e, una prospettiv­a di stabilità. E questo è motivo di ragionevol­issima preoccupaz­ione.

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