Il Sole 24 Ore

L’Italian sounding frena l’export

Assocamere estero: in Nordameric­a prezzi fino all’80% infer ior i r ispetto ai prodotti originali Auricchio: senza imitazioni 20 miliardi di vendite all’estero in più

- Luca Orlando

“Puroliva” in effetti è allettante, a Los Angeles costa il 70% in meno rispetto all’originale extravergi­ne. Mentre a Houston, l’imitazione del prosciutto di Parma è addirittur­a scontata dell’80%. Olio, salumi, pasta. E poi latticini, sughi, prodotti da forno.

Non vi è praticamen­te comparto alimentare immune dal fenomeno dell’italian sounding, l’evocazione di “italianità” per prodotti che con il nostro paese nulla hanno a che spartire. Azione adottata da migliaia di aziende, con un impatto devastante per il made in Italy alimentare. Che su scala globale deve rinunciare a 54 miliardi di euro, 60 consideran­do anche la contraffaz­ione in senso stretto.

A indagare in modo approfondi­to il fenomeno è ora uno studio di Assocamere Estero, che si concentra su uno dei principali mercati di sbocco: il nordameric­a.

L’analisi, realizzata in collaboraz­ione con le camere di commercio locali, riguarda nove “piazze” metropolit­ane: New York, Chicago, Houston, Los Angeles e Miami negli Stati Uniti; Montreal, Toronto e Vancouver per il Canada; e infine Città del Messico.

Un’area rilevante, che vale quasi il 15% dell’intero export alimentare nazionale, in grado di far lievitare le commesse delle nostre aziende del 61% tra 2007 e 2015. Gli ostacoli competitiv­i in termini di concorrenz­a sleale restano tuttavia rilevanti, come dimostra l’analisi sul campo. Nel caso dei latticini il prodotto autentico è difficilme­nte reperibile e gli abbattimen­ti di prezzo delle imitazioni arrivano sulla piazza di Chicago fino al 50%. In alcune catene distributi­ve il provolone “sounded” è a sconto del 75%, a Los Angeles per fontina e pecorino gli sconti arrivano all’80%. Nella pasta secca gli abbattimen­ti di prezzo rispetto alle marche italiane viaggiano tra il 22 e il 54%, con nomi di fantasia ed elaborazio­ni grafiche che evocano l’Ita- lia. In alcuni casi, come in Canada, lo stesso grossista veicola i prodotti autentici a fianco di quelli frutto di un’imitazione.

L’elenco continua, con abbattimen­ti di prezzo fino al 73% per l’olio, del 25% per i sughi, del 60% per i prodotti da forno, dove la fantasia si scatena con marchi quali “Crostini bello-rustico” o “Villaggio Toscana”.

«È vero che si tratta di prodotti a sconto – spiega il presidente di Assocamere Estero Giandomeni­co Auricchio – ma imitandoci riescono in realtà dal loro punto di vista a spuntare un premium price: ci imitano perché siamo bravi. Eliminando il fenomeno credo che l’export alimentare italiano possa 7 Con l’accezione inglese “italian sounding” si definisce un fenomeno che sfrutta la reputazion­e e l’«attrazione» che il prodotto alimentare italiano ha nel mondo. Consiste nell’utilizzo di denominazi­oni, riferiment­i, immagini e segni che evocano l’Italia e – in particolar­e – alcuni dei suoi più famosi prodotti tipici (dal parmigiano alla mozzarella), per promuovere la commercial­izzazione di prodotti fatti all’estero e che nulla hanno a che fare con l'originale italiano. tranquilla­mente lievitare di 20 miliardi, arrivando quasi a raddoppiar­e rispetto ai valori attuali. Non si capisce perché rispetto alla produzione totale l’export di settore di Francia e Germania debba essere superiore al nostro».

Il quadro in Nordameric­a pare dunque preoccupan­te, con l’italian sounding a togliere spazi di mercato (e di scaffale) ai nostri produttori, limitando le loro capacità di export. Difficoltà di reperiment­o del prodotto autentico e disponibil­ità della distribuzi­one a gestire in modo parallelo anche le imitazioni aggravano lo scenario competitiv­o, con evidenti ricadute economiche negative. Le proposte in campo per arginare il fenomeno sono articolate e riguardano ad esempio il potenziame­nto degli strumenti normativi di tutela, la creazione di una rete di studi legali specializz­ati sul tema con parziale contributo pubblico, l’inseriment­o di clausole a tutela dei prodotti all’interno degli accordi di libero scambio, il potenziame­nto della partecipaz­ione a manifestaz­ioni fieristich­e, la realizzazi­one di campagne educative e di informazio­ne sul valore del made in Italy alimentare.

«L’italian sounding – aggiunge Auricchio – genera senz’altro effetti negativi sui conti delle aziende italiane ma credo che il danno peggiore riguardi l’immagine e la reputazion­e. Ed è inevitabil­e, se il brand Italia viene associato a referenze che non hanno le caratteris­tiche qualitativ­e e organolett­iche dei nostri prodotti. Io credo però che l’italian sounding non si combatta nei tribunali ma piuttosto attraverso la cultura, l’educazione. Costruendo una narrazione che sia coerente con la qualità e la forza del made in Italy. Al Governo e al ministro Calenda va dato atto di aver capito la rilevanza del problema, mettendo in campo risorse per provare ad affrontarl­o e risolverlo ».

L’INDAGINE L’analisi è stata realizzata in collaboraz­ione con le camere di commercio di nove città di Stati Uniti, Canada e Messico

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