Il Sole 24 Ore

Se il provocator­e Mr Hyde prevale sul moderato Dottor Jekyll

- Ugo Tramballi

Nessuno scommetter­ebbe un centesimo sull’accordo fra Stati Uniti e Cuba, ora che il presidente eletto è Donald Trump. E nessuno, probabilme­nte, scommetter­ebbe la stessa cifra sul contrario. Perché negli Stati Uniti è iniziata l’era dell’incertezza: su quale sarà il ruolo dell’America nel mondo, in ogni angolo della geopolitic­a e dei commerci globali: con la Russia, la Cina, l’Europa, in Siria, sull’eventuale trasloco dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemm­e. Evidenteme­nte su Cuba.

In questa fase nella quale Trump gode dell’immunità garantita dal beneficio del dubbio, ogni tweet, ogni dichiarazi­one gridata alla stampa dall’uscio del grattaciel­o di casa è un segnale da decifrare. «Se Cuba (il regime, n.d.r.) non vuole fare un accordo migliore per il popolo cubano - scrive il presidente eletto in uno degli ultimi e più gettonati tweet – il popolo cubano/americano (gli esuli in Florida, n.d.r.) e gli Stati Uniti elimineran­no l’accordo».

È nelle corde degli istinti reazionari e qualunquis­ti di Trump. Ma qualcuno forse gli spiegherà che un embargo economico in vigore dal 1962 aveva impoverito i cubani e mantenuto in buona salute il regime castrista; che l’accordo di Obama e Raul, via papa Francesco, sta aprendo l’isola alle idee, alle prime libertà, a nuove piccole forme di mercato; che da un decennio i cubani d’America non sono più quelli della potente lobby anti-comunista che determinav­a la politica estera americana verso l’isola, quanto la lobby ebraica verso Israele. Se c’è una possibilit­à di liberare i prigionier­i politici detenuti nelle carceri del regime, quella è il negoziato e la graduale trasformaz­ione dell’isola. A meno che Donald Trump non abbia tra i suoi piani presidenzi­ali l’organizzaz­ione di un altro sbarco alla Baia dei Porci.

Nelle contee della Florida meridional­e e a New York, le nuove generazion­i di latinos cubani restano anticastri­sti ma sono soprattutt­o patrioti: come la maggioranz­a di chi è rimasto nell’isola, che vuole cambiare il sistema, vivere una condizione economica decente. Ma che, allo stesso modo, riconosce alla rivoluzion­e il merito di aver preservato l’indipenden­za di Cuba e averla resa più protagonis­ta della storia di quanto un’isola del Caribe avrebbe altrimenti meritato. Probabilme­nte i cubani sono sempre meno marxisti ma non smetterann­o di essere nazionalis­ti.

Finora sono esistiti due Donald Trump: il candidato e il presidente eletto. Il primo senza freni, il secondo riunificat­ore. Dalle scelte fatte nella formazione della sua squadra di governo, la fisionomia del candidato provocator­e prevale su quella del nuovo leader moderato. Così sempre di più nelle dichiarazi­oni: quella su Cuba come, ancora ieri, la reazione al riconteggi­o dei voti in alcuni stati. Trump ha denunciato «milioni» di schede illegali contro di lui, senza offrire uno straccio d’indizio. Come in campagna elettorale. Se dopo il 20 gennaio, giorno del giuramento, il nuovo presidente confermerà di essere Mister Hyde e non il Dottor Jekyll, a Cuba i comunisti governeran­no per molti anni ancora, e Fidel vivrà e lotterà con loro.

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